La ricorrenza del 150° anniversario dell‘Unità italiana ha fornito l’occasione – e se ne sentiva il bisogno – di riaprire il dibattito su alcuni aspetti dell’Unificazione nazionale. Gli eventi celebrativi, ma soprattutto la pubblicazione di nuovi testi sull’argomento, insieme alla riedizione di testi esauriti e dimenticati, stanno consentendo anche al grande pubblico e non solo a quello fedele – quasi “di nicchia” – agli studi specializzati , di riconsiderare il processo unitario e di introdurre un punto di vista diverso. Il punto di vista dei vinti. “La nobiltà della sconfitta”, come amiamo definirla e, la storia degli sconfitti, una storia “altra” o più semplicemente una controstoria popolare. Storia troppo spesso declassata al rango di “cronaca locale” o, addirittura , ricondotta solamente al folklore popolare; e che ha stentato a trovare spazio nella storiografia ufficiale e celebrativa, nonostante gli sforzi e gli approfondimenti di una piccola – ma molto seria – comunità scientifica e di studiosi.
Non si è mai trattato e non si tratta neanche qui ed ora – almeno non nelle pagine che seguono – di mettere in discussione il dato dell’Unità d’Italia, né tantomeno i valori dell’identità nazionale italiana e l’idea fondativa di Patria ma di analizzare il Risorgimento senza “pregiudizi positivi”, di riflettere cioè senza retoriche sul metodo, sul processo dell’Unificazione, su come venne fatta, sulla questione postrisorgimentale e sulla “questione meridionale” ancora, in parte , irrisolta. Soprattutto si tratta e si vuole dare voce ad uno dei tanti silenzi della storia, colmando non solo una lacuna ma un “buco nero” storiografico.
L’Unità d’Italia è arrivata al Sud per volontà e protagonismo di una minoranza, la maggioranza ne è rimasta esclusa, ha cercato di contrastarla e l’ha subita; l’Unità è costata – come di dice – “lacrime e sangue” di popolo e c’è stata una vera e propria guerra civile. È questo l’aspetto che affrontano e raccontano, con un approccio specifico e quasi settoriale, i cinque co-autori nelle pagine che seguono; in uno studio di facile lettura e di taglio divulgativo che non rinuncia agli approfondimenti e che contribuisce anche a “fare chiarezza” sul brigantaggio politico fornendo aspetti inediti o poco conosciuti. In Italia l’Ottocento fu secolo di brigantaggio pre e post-unitario, fu politico, sociale, comune e persino romantico; il termine brigante era stato introdotto nel nostro Paese dai Francesi che lo ritennero più appropriato rispetto a quello di bandito e lo avevano usato già per definire gli insorti vandeani antigiacobini.
Il Brigantaggio meridionale dopo la fase murattiana e napoleonica esprime la reazione popolare e contadina all’Unificazione della Penisola, vissuta come un’annessione al Piemonte. Anche il brigantaggio meridionale politico e legittimista è stato troppo spesso liquidato con un’etichetta, come piaga e male endemico del Sud e come fenomenologia delinquenziale comune invece che individuarne, lì dove c’era, il profilo della ribellione armata generata da cause sociali e ragioni politiche. La chiave di interpretazione dei fatti che il libro fornisce è la letteratura dei vinti, l’approccio è etno-antropologico, calati nel perimetro della ricostruzione storica, rafforzata da precisi richiami bibliografici; si indaga sulla dimensione esistenziale, corale e di costume della “resistenza” al processo risorgimentale ed all’Unificazione nazionale.
Nel libro rivivono le esistenze di coloro che non vedevano – e non ricevevano – nessun vantaggio dall’Unità d’Italia e le loro rivolte sociali contro l’invasione piemontese e, poi, contro la borghesia liberale che, divenuta classe dirigente, mantiene e conserva le stesse condizioni economiche e sociali pregresse e respinge le richieste contadine. Si raccontano vite e storie quotidiane di uomini e soprattutto di donne – e vogliamo sottolineare questo valore aggiunto nell’analisi – e di un immaginario collettivo che è rimasto sbiadito sullo sfondo della Storia Ufficiale ma che, invece, era l’anima popolare più autentica e diffusa.
Nell’ordito e nella trama delle “microstorie” , di cui è intessuto il quotidiano popolare e contadino che Il canto delle pietre racconta, svettano le figure dei briganti ma ancor di più quelle delle brigantesse, nomi quasi anonimi e decisamente poco noti ai più, con il loro “destino altrove” di donne che, nelle pagine dei nostri autori trovano finalmente un riscontro storico e descrittivo che rende giustizia di qualcuna delle troppe mistificazioni.
L’architettura del libro si completa con la parte dedicata alla figura gigantesca e troppo poco indagata della Regina Maria Sofia, nel cui destino si sono intrecciate le storie della nascita dell’Unità d’Italia e quella della fine del Regno di Napoli. Una donna complessa che ha attraversato uno scenario di conflitto; icona di nobiltà ed eleganza, simbolo di coraggio e coerenza, la Regina Maria Sofia è diventata a posteriori la metafora femminile ed eroica dell’epopea di quel sud borbonico, e pure sanfedista ed antigiacobino che non si è mai arreso neanche idealmente alla sconfitta ed alla “piemontizzazione” operata dalla Monarchia sabauda.
E non solo. La figura personale di Maria Sofia – la sua fierezza durante l’assedio della Fortezza di Gaeta accanto al Re Francesco II, il suo prodigarsi per i feriti ma anche la dignità nell’esilio – ha suscitato simpatie e rispetto in tutta Europa, anche tra coloro che non ne potevano condividere il destino storico ed erano dall’altra parte. Oltre alle pagine, sincere ed insolite, dedicate al personaggio di Maria Sofia, il libro affronta – e con questo acquista un valore aggiunto e specifico – l’umanità dei personaggi in campo nella storia. Non è solo la cosiddetta “storia minima”, come insegnano i più moderni criteri storiografici, ma un viaggio che racconta con coraggio la lotta delle donne dei briganti ma soprattutto quella delle brigantesse e delle capobanda; un universo femminile generalmente poco indagato e sempre reietto che in questo caso sconta una doppia condanna storiografica, quella di genere e quella di stare dalla “parte sbagliata”.
Tra spontaneismo ed organizzazione, un’intera società si dà ai combattimenti ed al brigantaggio; indagare l’elemento femminile del brigantaggio significa utilizzare un’ulteriore chiave interpretativa rispetto alla totalità storica e contribuisce ad un approfondimento non solo del punto di vista di genere ma anche delle radici più profonde di un fenomeno proveniente dal basso, un sommovimento del e nel corpo sociale, scatenato da un’istintiva difesa delle proprie specificità.
Ed anche se è difficile tracciare un profilo storico sicuro delle protagoniste, più note con soprannomi e nomi di battaglia che con i rispettivi nomi (che risultano per lo più solo nelle carte processuali); ed anche se avvenimenti e personaggi – come in tutte le guerre di popolo – inevitabilmente, si circondano di leggenda e le individualità, specialmente quelle femminili, si comprimono nella dimensione corale, il libro riesce a restituire contorni precisi di storie e figure.
È evidente che le donne ebbero un ruolo decisivo nella diffusione del brigantaggio e nella storia del brigantaggio meridionale; la loro presenza è accertata anche al centro delle organizzazioni brigantesche, non solo – quindi – donne di briganti ma brigantesse. Il brigantaggio femminile presenta, infatti, i caratteri di un fenomeno autonomo rispetto al brigantaggio maschile nel quale è inserito e con il quale resta intrecciato; non si trattò solo e soltanto, allora, di drude, di concubine, amanti e manutengole o messaggere e confidenti dei briganti ma protagoniste delle formazioni e delle bande brigantesche. Le brigantesse, spesso vestite da uomo, sempre armate come gli uomini, andavano a cavallo, vivevano alla macchia nei boschi e sui monti, dormivano all’addiaccio e partecipavano ai combattimenti esattamente come i briganti uomini. Nel suo Le brigantesse, Francamaria Trapani (ed. Canesi), dà, del fenomeno del brigantaggio femminile come “psicologicamente autonomo collaterale e distinto” rispetto a quello maschile, un’interpretazione in chiave addirittura femminista, sia pure di elementare femminismo contadino, definendolo: “… prima ribellione femminista allo stato di soggezione atavico e tradizionale della donna delle province meridionali d’Italia …aperta sfida alla morale comune”, intendendo anche che, porsi consapevolmente allo sbaraglio, rappresentasse un’alternativa preferibile ad un destino di miserie e di gravidanze obbligate e ripetute. Mentre, Rosa Maria Fusco (Le donne e i loro briganti dopo l’Unità d’Italia, Tarsia) sottolinea
che “quella delle donne all’interno del brigantaggio è presenza ormai accertata e non sempre e non solo nel ruolo tradizionale di madri, mogli, amanti, sorelle e figli” – ruoli familistici che ben si giustificano all’interno di quel tipo di società patriarcale e contadina – “ma anche in quello più rimosso non di donne del capo ma di capi: le luogotenenti, le strateghe, le combattenti”.
E se nel brigantaggio del periodo murattiano la presenza femminile è marginale ed occasionale, in quello postunitario le donne sono tante e sono organizzate; lo dimostrano anche gli incartamenti processuali (con i nomi che figurano accanto a quello della banda di appartenenza) , negli Archivi delle Prefetture e dei Tribunali e in quelli dei Carabinieri e si tratta di fonti storiche privilegiate ed utilissime per ricostruire il fenomeno della partecipazione femminile al brigantaggio ed evincerne ruoli e funzioni, rafforzando – almeno in chi scrive – la convinzione che si trattò anche di un movimento di resistenza con accenti sociali, politici e religiosi e che si configurò come una vera e propria guerra di popolo. Le rare foto dell’epoca ritraggono i volti volitivi delle brigantesse, ritratti di donne dalla femminilità intransigente, tragica e dolente; al collo, un rosario ed un filo di spago che teneva un sacchetto di pelle con qualche grano di terra.
E se nel brigantaggio nel suo complesso e nella sua complessità non è stato e non è facile distinguere i caratteri di delinquenza e criminalità comuni dagli aspetti legati alle motivazioni politiche ed alle istanze e ragioni sociali, quello femminile appare più “romantico” ed istintivo, più facilmente riconducibile ad un’anima ed una volontà di “Risorgimento dell’Italia meridionale”. Ed è questo il canto delle pietre. Come insegnava Voltaire, “la Patria sono i luoghi che tengono incatenata l’anima”. Con il Sud e la sua storia di libertà, occorre fare ancora i conti.
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