Il Pregiudizio è un giudizio preventivo, non coincide con lo stereotipo ma gli è molto vicino. Spesso hanno lo stesso passo, solcano gli stessi sentieri. Si assomigliano ma sono diversi, si favoriscono a vicenda e dove finisce l’uno può cominciare l’altro. Pregiudizi e stereotipi – e quelli di genere sono i più antichi ed i più resistenti nel tempo – alimentano e moltiplicano le discriminazioni dirette ed indirette, creando un circolo vizioso di causa ed effetto, difficile da spezzare.
Conosco il pregiudizio anche perché ne sono stata vittima. C’è una porta di legno chiaro vicino a Via Trionfale, che non ha mai smesso di tormentarmi. E’ il 1972, ho dieci anni e mio padre viene arrestato con un’accusa terribile, pesante come un macigno, un’accusa che lo lega alla strage di Piazza Fontana. Io, bambina vivo le mie giornate a scuola con le amichette di sempre. Le quattro amichette più strette, quelle dei giochi, della condivisione dei banchi, diari, pomeriggi, giochi e racconti. Fino a quel pomeriggio. Uscite da scuola abbiamo pensato di passare il pomeriggio a casa a giocare tutte e quattro a casa della mia migliore amica. La casetta modesta è lì, di fronte alla scuola, con il suo giardinetto minuscolo di residenza di militare, circondata dall’inferriata. Sembriamo amiche e uguali fino a quell’istante, il momento preciso in cui la porta si apre, e la mamma sulla soglia fa entrare loro tre e ferma me. “Tu no, sei la figlia di un fascista. E chiude la porta. Io non so se ho pianto, ma ho guardato quella porta a lungo prima di tornare sui miei passi con la cartella in spalla e la certezza di essere diversa. Ricordo un’altra mattina di quindici anni. Pioveva mentre entravo nella sede di un prestigioso Istitutio di Ricerca. Arrivavo con due lauree e mi sentivo davvero adatta a quel posto di lavoro per titoli e capacità. Il capo è seduto alla scrivania. Non c’è tempo per i convenevoli, né per consegnargli il curriculum.“Quelli come lei non ci piacciono… lei è eterogenea rispetto a noi. Non sarà facile lavorare qui.” Come facevo a spiegargli che avevo moltissime idee per quel lavoro, che volevo dimostrargli quanto ero in gamba, che non ero lì per fare la portabandiera di alcuna ideologia, ma semplicemente per fare un lavoro per cui avevo studiato? Ricordo ancora oggi il senso di tristezza, misto all’impotenza e pochi istanti dopo la voglia di combattere contro quel pregiudizio. La bambina rimasta chiusa fuori dalla porta di legno chiaro tanti anni prima, la “figlia del fascista” nel frattempo era diventata grande, aveva studiato, conosceva la forza dello scontro e della contrapposizione e, scontrandosi, aveva imparato qualche regola del gioco. Sapeva che tanto lavoro, un atteggiamento umile e disponibile, le avrebbero guadagnato la stima di chi oggi pretendeva di bollarla e respingerla senza appello. Mi sentivo capace di lavorare ed ero convinta che anche questa volta avrei ribaltato il pregiudizio. Anche adesso, che di anni ne sono passati, non è certo finita. Per molti sono rimasta la “figlia del fascista” e lei stessa prodotto di una destra con cui non si può dialogare. E lui, il Pregiudizio, ancora oggi per me ha una sua fisicità, lo vedo venirmi incontro prima ancora di prendere la parola, di stringere le mani, lo vedo stendersi come una maschera sui volti delle prime file che aspettano di ascoltare da me quello che sono convinti di sapere già. E poi il momento peggiore quando arriva puntuale la frase: “Non pensavo che tu fossi così”. E io ogni vota mi chiedo: che cosa poteva pensare se non mi conosceva “figlia di” “moglie di” solo in quanto tale valutata, interpretata e alla fine, anche usata. Senza curarsi di chi sono io, della mia storia e della mia persona. “Moglie di”: pregiudizio tra i pregiudizi.
Non so se siano più le donne o gli uomini a usare i pregiudizi come cornici mentali nella lettura della realtà, ma so che le donne sono, e restano, le vittime privilegiate.
Il pre-giudizio è pervicace per vocazione e destino perché – e l’etimologia non concede dubbi – è un “a priori”, viene prima, precede il giudizio che elaboriamo con le categorizzazioni della conoscenza e dell’esperienza; insomma, è precedente quindi prematuro, forse immaturo, quasi sempre inconsapevole, sicuramente insufficiente ma rispondente alla “produzione mentale e culturale” del gruppo di nascita o di appartenenza. Per le scienze sociali esistono pregiudizi positivi, negativi e neutri; nella percezione più comune e – aggiungo, nella mia – invece, evoca immediatamente qualcosa di sfavorevole – più simile ad un’idea preconcetta – un’immagine mentale inscritta nel senso comune che non è affatto detto sia buon senso. La non conoscenza, l’ignoranza (che secondo Denis Diderot è meno lontana dalla verità del pregiudizio) è comunque sempre pregiudizievole ed il pregiudizio è una debolezza – quando non diventa un lusso beffardo – ed una reazione securizzante alla paura; paura del diverso: per genere, per razza, per orientamento sessuale, per credo religioso o ideologico, per età, per disabilità. Affligge coloro che non sanno o non vogliono vedere la potenziale ricchezza delle differenze, quanto, solo e piuttosto, la minaccia dell’alterità. Può essere fonte di conflitto. La costruzione individuale e la riproduzione collettiva dei pregiudizi culturali e mentali rappresentano un pericolo sociale e alimentano la contrapposizione tra persone, popoli, etnie, religioni, gruppi economici, politici, generazioni e tra i due sessi. Ma nessuno di noi è senza pregiudizio perché esso è innato. E’ impossibile liberarsene definitivamente; ma si possono perseguire, faticosamente e coscienziosamente, tecniche di abbattimento continuo. Il primo passo è la consapevolezza poi l’apertura al dialogo, la conoscenza, l’esperienza, la curiosità, il voler capire. L’educazione contribuisce a creare un sistema di controllo e di riduzione del danno, eliminando le azioni discriminanti. Quello che possiamo e dobbiamo fare è convertirci dal pregiudizio, dalla sua superbia e dalla sua boria, sfidando in ogni atto, piccolo e grande, il pregiudizio e il suo orgoglio.