C’è un nodo profondo che lega il ruolo femminile – ed il suo effettivo riconoscimento – ai processi di sviluppo. Questo è stato il “filo rosso” del Convegno internazionale “Donne e sviluppo. Per un’alleanza internazionale contro la fame” svoltosi nei giorni scorsi a Roma – nell’ambito delle celebrazioni del Governo italiano per la Giornata Mondiale per l’alimentazione – ed organizzato dal Ministero delle Politiche agricole e forestali, insieme all’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN) e dall’Istituto Internazionale Jacques Maritain.
Attraverso il binomio “donna e sviluppo” debbono passare le strategie multilaterali per vincere la battaglia contro la fame nel mondo; è necessario spezzare le barriere che precludono alle donne l’accesso alle nuove tecnologie ed al credito che, nei Paesi in Via di sviluppo, è riservato quasi esclusivamente agli uomini. Si tratta, in sostanza, di introdurre buone prassi ed “azioni positive” nei progetti e nei sistemi di cooperazione internazionale, riconoscendo l’intreccio tra sviluppo e politiche di parità di opportunità fra uomo e donna, in un’ottica di genere e di valorizzazione della specificità femminile. Nella consapevolezza del paradosso che, nei paesi poveri, le donne sono le principali produttrici di cibo (producono i ¾ degli alimenti) ma muoiono di fame o sono denutrite, insieme ai loro bambini.
Le donne, infatti, insieme ai loro figli sono i soggetti più vulnerabili fra gli oltre 800 milioni di persone che soffrono la fame; e l’area della malnutrizione e della povertà continua a dilatarsi, a fronte del fatto che la produzione mondiale di alimenti, negli ultimi anni, sia aumentata rispetto al tasso di incremento demografico.
Ottocento milioni – circa – di persone che lottano per sopravvivere è un numero troppo alto, inacettabile; è come dire che una persona su sette soffre la fame in un mondo che produce cibo sufficiente per sfamare tutti in modo adeguato.
Nel 1996, il Vertice mondiale sull’alimentazione (World Food Summit) aveva stabilito come obiettivo prioritario, quello di dimezzare – entro il 2015 – il numero delle persone che soffrono la fame; tale impegno è stato ribadito più tardi nella Millenium Declaration come uno degli obiettivi per lo Sviluppo del millennio.
Realizzare il sogno di un mondo senza fame è stato il “leit-motiv” del Vertice mondiale sull’alimentazione del 2002 che – per gli impegni sottoscritti nella Dichiarazione conclusiva – ha segnato un passo avanti nella lotta contro la fame. Ma la comunità internazionale è consapevole che “l’obietto-2015” di ridurre a 400 milioni il numero di coloro che non possono sfamarsi, sarà difficilmente raggiungibile.
I progressi ci sono stati ma sono stati troppo lenti; per raggiungere il risultato la popolazione affamata dovrebbe diminuire ad una velocità più che doppia rispetto all’attuale. In termini quantitativi: si è registrata una diminuzione delle persone che soffrono la fame di 6 milioni all’anno ma per centrare l’obiettivo la riduzione annuale sarebbe dovuta essere di 22 milioni.
Nonostante le dichiarazioni d’intenti, gli sforzi intrapresi e gli effettivi miglioramenti, l’obiettivo del dimezzamento sembra allontanarsi; si stenta – insomma – a tradurre in azioni gli impegni sottoscritti, in alcuni casi per mancanza della giusta volontà politica e, in altri, per la carenza dei finanziamenti necessari.
La Comunità internazionale ha deciso di costruire un’ “Alleanza internazionale contro la fame”: uno sforzo collettivo che impegni energie e gruppi differenti, dal mondo istituzionale alle agenzie internazionali, dalle realtà dell’associazionismo religioso alle organizzazioni non-governative, dalla società civile al settore privato in una formula di partenariato mondiale, finalizzato a garantire il diritto umano alla nutrizione ed alla sicurezza alimentare.
L’Alleanza non ha una vocazione “paternalistica” ma di reale cooperazione allo sviluppo; i “Paesi ricchi” devono mettere le loro tecnologie e conoscenze a disposizione dei Paesi in Via di sviluppo, per aiutare le nazioni povere ad incrementare le loro capacità ed a dare vita a modelli sviluppo compatibili, autocentranti, autosufficienti e sostenibili dal territorio.
Uno dei nodi da sciogliere nella lotta alla fame non è la carenza complessiva di cibo quanto le questioni di reddito economico e le possibilità di accesso alle tecnologie. Per combattere la fame bisogna affrontare l’immensa questione della povertà e ragionare sulle sue cause, quelle endemiche e quelle indotte.
Oggi le sfide della globalizzazione sono sempre più complesse e sembrano tessere una rete, un groviglio di fattori intrecciati che finiscono per rafforzare le condizioni di povertà, di fame, di sottosviluppo e di degrado ambientale; e tali condizioni aggravano la dipendenza dal sistema degli aiuti e delle importazioni dai Paesi più sviluppati. Quello che si sta creando è un circolo vizioso, con tutti i costi sociali ed esistenziali che questo produce, non ultimo – e lo scenario internazionale, lo sottolinea – il reclutamento degli emarginati e dei disperati nei meccanismi del crimine e del terrore.
L’imposizione di modelli di sviluppo esterni all’ambiente ed il territorio, atteggiamenti di colonialismo e di imperialismo economico, nonché la liberalizzazione totale ed indiscriminata degli scambi e del mercato, non sono la risposta giusta alla domanda ed ai bisogni del sud del mondo. Bisogna investire su modelli di sviluppo durevoli e sostenibili, con progetti specifici e mirati (di dimensioni piccole e medie), rispettosi delle tradizioni dei popoli, delle identità locali e delle biodiversità; è necessario fornire conoscenze tecniche appropriate e compatibili, utili a raggiungere l’autosufficienza.
Se si vuole cogliere la sfida della globalizzazione, nel tentativo di “governarla” si devono percorrere i sentieri della solidarietà – non dell’assistenzialismo – attivando processi di sviluppo imperniati sui diritti umani fondamentali.
Nel mondo globalizzato le disuguaglianze tendono a crescere ed il “multilateralismo” non riesce sempre a dare le risposte che servono né a realizzare fino in fondo, la condivisione di responsabilità nello sviluppo dei più poveri del mondo.
Il fallimento della recente Conferenza ministeriale del WTO a Cancun, non rivela soltanto le divergenze fra i paesi sulle regole del commercio – che deve essere più equo e solidale – ma dimostra anche la debolezza degli organismi di dialogo internazionale e multilaterale di fronte alle sperequazioni mondiali.
E’ stato il dramma dei paesi più poveri che ha fatto fallire il Vertice, insieme alla crescente contrapposizione tra Nord e Sud del mondo, fra ricchi e poveri; tra i paesi a sviluppo avanzato e quelli del Terzo e Quarto mondo.
E’ saltato – finalmente – uno schema, quello in cui “ i sazi ed i ricchi” decidono del futuro del resto del mondo.
Isabella Rauti