Mister Drake e il battesimo del fuoco
È il 19 marzo, mio figlio Manfredi compie diciassette anni. Cedo. Gli faccio il regalo dei regali: un cucciolo di cane; un canetto oggi, un cagnone domani. Vado a prendere Manfredi all’uscita di scuola e andiamo a un allevamento in Toscana. Entriamo nelle gabbie e in mezzo alle cucciolate vedo negli occhi di mio figlio la gioia che hanno solo i bambini e che gli adolescenti smettono troppo presto. Mio figlio è circondato da cuccioli di Weimaraner e uno fra tutti lo sceglie. Sarà lui il nostro Mister Drake. Torniamo a Roma. Cominciano subito i preparativi, anche i dubbi e le incertezze, ma cadono anche le ultime piccole mie resistenze. Niente da fare. Il canetto arriverà nella nostra vita.
E lo fa, il 28 marzo, di mercoledì sera, avvolto in un asciugamano. Abbiamo preparato la cuccia, un basket decisamente troppo grande e ingombrante, e subito il piccolo Drake preferisce il letto. Anche la casetta comprata per invogliarlo alla vita sul terrazzo resta disabitata e vuota, piena solo di un soffice e inutile cuscinone, gonfio, tronfio e solitario. Drake vuole solo il letto e il suo materasso.
La mattina dopo inizia il pellegrinaggio per il suo arrivo, i bambini del palazzo, gli amici di mio figlio, le mie amiche canare, parenti vari e mia sorella che sull’argomento cani vanta una lunga esperienza. La più lunga della famiglia. È una novità e tutti vengono a conoscere il nuovo arrivato e per tutto il giorno è solo confusione ed emozione e, naturalmente, una pulizia continua dei pavimenti.
Arriva venerdì, mio figlio non andrebbe neanche a scuola per stare con il suo cucciolo, ma lo costringo a uscire. Drake si fa improvvisamente malinconico, penso sia la nostalgia per l’assenza di mio figlio, subito individuato come l’elemento alfa della famiglia; ma purtroppo non è questo. E di lì a poco Drake comincia a stare male, con la pancia, con lo stomaco. A ripetizione! E non si ferma. Mi allarmo, mollo tutto, disdico tutti gli appuntamenti della giornata, spiegando che ho il cane che sta male. Alcuni comprendono e solidarizzano, altri niente affatto. Ma tant’è.
Soccorro il cucciolo e gli presto le prime cure, quelle istintive. Non ho nessuna esperienza. Chiamo il pediatra, ma – ovviamente! – non serve, e poi tutti i proprietari di cani che conosco per avere consigli. Mi rendo conto che non ho ancora un veterinario, il canetto è appena arrivato. Mi metto alla ricerca, ne trovo uno vicino a casa, raccolgo Drake, lo avvolgo nell’asciugamano e lo carico in una bacinella; e lui mi guarda con gli occhi tristi. Chiamo mio figlio. Arriviamo insieme, di corsa, dal veterinario e scopro il mondo della sala d’aspetto: cani, gatti, altri animali e i loro proprietari, un piccolo universo compiuto: il ragazzotto scanzonato, il bambino con la nonna, la signora sola di mezza età, la ragazzina belloccia in tuta da ginnastica, la coppia senza figli e la madre ansiosa (io!). C’è solidarietà e ognuno racconta la sua “pet story”. Arriva il nostro turno; tocca a noi entrare. Domande di rito, visita accurata e poi la prima flebo: Drake è disidratato, ha una violenta gastroenterite virale e, così piccolo, rischia di morire. Io, che in genere mi atteggio a “tipo tosto”, piango senza ritegno davanti al veterinario appena conosciuto, mentre mio figlio tiene la zampetta di Drake che smania per l’ago e vorrebbe strapparsi tutto a morsi con le poche forze residue.
Torniamo a casa, preoccupati e tristi, e il canetto sembra ancora più piccolo nella sua bacinella, le orecchie ancora più grandi, gli occhi spersi. Arrivati a casa, niente di buono. Drake continua a stare male. Io e mio figlio ci alterniamo alla cuccia capezzale. Mi dimentico di tutto il resto e mi tornano in mente le febbri infantili, notturne e diurne, che così violente vengono solo ai neonati e ai bambini molto piccoli.
Il giorno dopo stessa trafila dal veterinario. Altre flebo, altre analisi, diagnosi e incoraggiamenti del veterinario. Il canetto, però, non si regge sulle zampe. Il fine settimana lo passiamo nella clinica veterinaria, per completare il ciclo delle flebo.
Un tunnel che non mi aspettavo. Non ero mai entrata prima in una clinica per animali: desk per l’accettazione, tavoli operatori, medici e infermieri in camice. Drake si fa fare ogni cosa, ormai senza neanche reagire. È sfinito! Non si sa più dove mettergli l’ago della flebo. E non sembra affatto migliorare. Mando via mio figlio e resto accanto al cane. La flebo pare eterna, gli tengo ferma la zampa e lo accarezzo mentre lo trattengo sul tavolo di metallo; c’è un odore insopportabile.
Finalmente arriva il momento di riportarlo a casa, con la stessa bacinella azzurra che funge da barella. Lo metto in macchina, accendo il motore sconsolata e mi avvio verso casa. Siamo soli in macchina e mi scopro a parlargli come fosse un passeggero o come se avessi nel seggiolino mio figlio piccolo. Non smetto di guardare con la coda dell’occhio dallo specchietto retrovisore per vedere cosa succede in quella bacinella dietro di me. Il semaforo è rosso, mi fermo e posso voltarmi: Drake si è rizzato sulle zampette e mi guarda sporgendo le orecchione dalla bacinella, tenta perfino di uscire. È rinato. Il resto del tragitto, a quel punto, si fa difficoltoso, si è ripreso del tutto, così, all’improvviso. Si agita vivacemente, sospetto voglia prendere il mio posto e mettersi alla guida dell’auto. Continua a saltare dove e come può. Si è ripreso!
All’anima se si è ripreso! Arriviamo a casa, sembra che io abbia riportato indietro un altro cane, non quello che era uscito avvolto in un asciugamano, con le zampe incerottate, le orecchie lunghe e l’aria mesta. Immaginate a questo punto lo stupore del rientro, provato da tutti noi ma soprattutto dall’anziano Bizet, il nostro gatto, che dall’arrivo di Drake si è visto spodestato negli spazi e nelle attenzioni.
Si guardano, si studiano, si affrontano; il cucciolo di cane vorrebbe solo giocare, l’anziano gatto vorrebbe invece annientarlo con una zampata. Realizzo che un cane, ora risanato e scatenato, e un gatto anziano, abitudinario, vagamente arrogante e molto viziato, possono fare l’effetto carambola. Ed è quello che da allora succede a casa nostra ogni giorno. Il rodeo si scatena solitamente in salotto e prosegue nel corridoio: il gatto Bizet – quello musicista degli Aristogatti – versus Drake, il cucciolo di cane, che porta il nome del pirata Francis! Si sfidano per rubarsi il cibo a vicenda o per espropriare l’unico tappetino rimasto intatto.
Dopo la guarigione di Drake è cominciata la normale (?) disperante gestione di un cucciolo scatenato, capace di distruggere una casa, forse anche una famiglia, in pochi minuti. Abbiamo avuto quello che si chiama un battesimo del fuoco. L’accelerazione di quei primi giorni critici di malattia ed emergenza ha reso tutto più facile e più naturale. È stata un’accelerazione di sentimento.
Guardo mio figlio e il suo canetto redivivo che dormono insieme sul letto, sereni e tranquilli, e chiudo la porta della stanza con quel senso materno di perfezione e compiutezza. E nei primi giorni di normale gestione del cuccioletto racconto alle amiche, ridendo di me stessa, che da quando Drake è arrivato ho la depressione post partum, in versione “dog blues”, e che sono “sfranta” dalla fatica e dalle insicurezze; assillo il veterinario, come ho fatto per anni con il pediatra, perché il cucciolo è troppo magro, forse l’alimentazione non è adatta, fa troppa pipì o troppo poca. E nei pochi attimi di lucidità ammetto di essermi rincretinita.
Scopro velocemente che il piccolo Drake è languido, sensibile, divertente, tenero, furbetto e con qualche guizzo di follia, tipica della sua razza. Gliela vedi negli occhi color ambra cangiante e negli “affondo” che ti fa, generalmente alle spalle. Ora ha quasi la mole di un Alano ma non ne è consapevole, si muove e ti si butta addosso come se fosse un Barboncino. Talvolta sospira malinconico, quasi filosofico, e osserva le mie espressioni e i miei gesti con sufficienza ma anche con gratitudine.
Anch’io però gli sono grata. Grazie a lui ho riscoperto i parchi, le passeggiate con mio figlio, il saluto cordiale di sconosciuti che girano con i loro cani, le ansie antiche per cacche, pappe e pipì; il rispetto degli orari e il senso ripagante del piccolo sacrificio fatto per amore. Ho visto con occhi nuovi e lentezza di passo le strade del mio quartiere, portone dopo portone, e i bambini che si fermano ad accarezzarlo, e ho visto mio figlio atteggiarsi a ragazzo padre e sembrare improvvisamente più grande e responsabile. E ho scoperto anche che il tapis roulant che avevo appena comprato per correre non mi servirà più e che, anzi, è pericoloso: Drake ama attraversarlo in senso inverso a quello di marcia, con il risultato di volare ogni volta con le orecchie al vento stile paracadute e una smorfia di sfida impertinente. La stessa smorfia con cui si lancia sui croccantini del gatto, maciulla fotografie e tende ma anche le bombolette spray, le bottiglie di profumo, le chiusure lampo dei jeans, le pantofole, i tacchi delle mie scarpe e tutto quello che solo chi ha un cane sa bene e chi non lo ha non può neanche immaginare. Come non lo immaginavo io, prima! Eh sì, perché c’è un prima e un dopo, e la differenza la fa l’ingresso di un cane nella tua vita!
E dopo ogni guaio che combina, dopo ogni ennesimo danno, Drake sfodera quella smorfia impertinente e strafottente, sempre dietro lo sguardo incolpevole e ruffiano, quello che ti frega perché ti ruba il nuovo cuore nato con lui.