Convegno “Forum risorse umane politiche del lavoro, strumenti e processi per innovare la gestione delle persone nelle aziende e nella P.A”. Organizzato da: comunicazione italiana srl
Roma, 22 ottobre 2009
Intervento della Prof.ssa Isabella Rauti , Capo del Dipartimento per le Pari Opportunità
Il titolo di oggi è un bel titolo ed anche un pò movimentista: “l’Italia che lavora”. Di questa Italia che lavora, io guarderò soltanto a quel 46,3%, cioè a quel tasso di occupazione femminile, quindi alle donne occupate. Nel corso dei decenni l’incremento dell’occupazione femminile è stato costante anche se non è stato omogeneo sul territorio nazionale e inoltre quell’incremento ha avuto nel tempo una sua contrazione. L’attuale media occupazionale, quel 46,3% cui accennavo, a sua volta può essere scomposto perché p.es. nel sud le donne che lavorano sono poco più del 30% a fronte di una media occupazionale nel nord del 56,7,8%, quindi un dato che va disaggregato perché non è un dato omogeneo. Comunque il dato nazionale, è sempre nel corso del tempo,di circa10 punti % inferiore alla media occupazionale femminile del resto d’Europa, e anche questo credo che sia un altro elemento; inoltre l’obiettivo a cui tutti gli europei guardano è quello della strategia di Lisbona che fissava per il 2010 un tasso occupazionale femminile del 60%.
E’ evidente che oggi quell’ obiettivo non è alla nostra portata perché bisognerebbe immaginare l’ingresso di almeno tre milioni di donne per raggiungerlo.
Fin qui l’aspetto quantitativo, in estrema sintesi e solo per introdurre la questione. Poi ci sono gli aspetti critici qualitativi che sono gli scarti di genere, quelli che vengono tecnicamente chiamati dei gender gap nelle progressioni di carriera, nel raggiungimento di ruoli dirigenziali, posizioni apicali e di vertice e più in generale nell’ascesa ai luoghi di potere decisionale; ci sono, inoltre, degli scarti ormai calcolati, stimati e rilevati, scarti retributivi e salariali tra uomo e donna a parità di lavoro svolto quindi a parità di condizione lavorativa ed esistono nonostante una normativa di parità in materia lavorativa assolutamente garantista e all’avanguardia. Nonostante questo aspetto di tutela, permangono delle forti criticità forse non tanto nell’accesso quanto nella permanenza delle donne nel mercato del lavoro e nel loro ricollocarsi nel mercato del lavoro dopo che ne sono uscite, o ne sono state espulse o ne sono state marginalizzate, generalmente per lo svolgimento di lavoro di cura che non è più soltanto la crescita dei bambini perché c’è un congiuntura esistenziale che vede saldarsi la crescita dei figli con quel momento della vita delle donne che assistono la 3° e la 4° età. Questo meccanismo rischia di colpire le donne in una età particolarmente importante dal punto di vista lavorativo e professionale, e segmenta la loro permanenza nel mondo del lavoro e crea anche problemi per un loro ritorno al lavoro, un retravailler, un ricollocarsi nel mercato del lavoro dopo esserne uscite per scelte o obblighi di lavoro di cura; quindi è evidente che la questione che dobbiamo considerare è quella ancora irrisolta del work life balance e della conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro e questo a mio avviso non è una questione marginale anzi se non è il nodo è uno dei nodi del mercato del lavoro italiano. A conforto dell’importanza cruciale di questo nodo del lavoro femminile, credo che vadano anche tutte le riflessioni degli economisti i quali hanno calcolato che questo capitale femminile definito “capitale dormiente”, naturalmente non per pigrizia ma per meccanismi aggressivi del mercato del lavoro o non amicali , se risvegliato e se introdotto nel mercato del lavoro determinerebbe un aumento del PIL e meccanismi di sviluppo e di competitività del Paese. Questo aspetto diventa controverso se noi lo contestualizziamo, e non possiamo non farlo, nel panorama della di crisi globale. Esiste una specifica criticità femminile nella crisi globale che noi attraversiamo, una crisi che ha visto fallire modelli di sviluppo selvaggio, la domanda che ci poniamo è se questa crisi graverà di più sulle donne e in che modo o se non graverà di più su di loro rispetto agli uomini. Intanto, per adesso, questa crisi ha colpito di più comparti tradizionalmente maschili, è successo negli USA è successo in SPAGNA sta succedendo nel resto d’Europa, quindi comparti tradizionalmente maschili,ma noi dobbiamo ancora aspettare l’onda lunga di questa crisi che sicuramente riguarderà anche le donne. C’è anche chi, e questo naturalmente è un paradosso, anche spaventoso ma non possiamo non considerarlo,per il quale, poiché il lavoro femminile costa di meno, potrebbe essere sacrificato di meno dalla crisi. L’ILO ha quantificato in prospettiva, quale potrebbe essere il danno, la ripercussione della crisi economica sulla popolazione occupata femminile, si parla di oltre 22 milioni di lavoratrici che verrebbero escluse dal mercato del lavoro. Io penso che le donne potrebbero essere la chiave per uscire dalla crisi, un dato è certo ossia esiste un nodo, ovunque, tra il tasso di attività delle donne e la crescita economica, quello che viene definito un circolo virtuoso tra occupazione femminile e reddito, e, tra l’altro, l’ occupazione femminile crea a sua volta altra occupazione, soprattutto nel campo dei sevizi alla persona, che generalmente è femminile; insomma ed effettivamente se noi riuscissimo a rovesciare la prospettiva critica legata appunto alla crisi economica svegliando il capitale dormiente, immettendolo nel mercato del lavoro e inseguendo questo circolo virtuoso tra reddito e attività delle donne, forse noi troveremmo uno dei bandoli della matassa per uscire da questa crisi. E per uscire da questa crisi credo anche sia necessario, e in questo le donne hanno un ruolo,riscoprire strategie di risparmio e valori di essenzialità, fare tutti un passo meno di corsa, con i piedi per terra secondo criteri di rigore e su questo le donne tendenzialmente sono più brave.
Per quanto riguarda la realizzazione delle parità nella P.A., insieme al Ministero per la Pubblica amministrazione e Innovazione, stiamo osservando e articolando e tarando, con un meccanismo piuttosto serio di rilevazione, i miglioramenti introdotti all’interno della P.A dal punto di vista delle pari opportunità. La P.A è il comparto che accoglie una concentrazione eccezionale di presenza femminile, e per questo rappresenta un po’ una metafora, utile per fare delle riflessioni. Intanto, è una metafora perché, anche se è un comparto con tale straordinaria concentrazione femminile, le progressioni di carriera e le posizioni apicali, non hanno un adeguato corrispettivo rispetto alla massiccia presenza delle donne nella P.A. Anche questo comparto, ha gli stessi “scarti di genere” di altri settori lavorativi, nonostante il lavoro egregio dei Comitati P.O. e l’efficacia dei piani triennali; anche questi organismi forse andrebbero riconsiderati nell’ottica naturalmente di una maggiore capacità d’intervento. C’interessa, inoltre, guardare all’interno della P.A., perché è li che noi possiamo studiare nuovi modelli di organizzazione del lavoro. Se noi che siamo una società post- fordista, che abbiamo invocato meccanismi di flessibilità nel mondo del lavoro e abbiamo delle leggi, buone, se però il mercato del lavoro resta rigido, i modelli di organizzazione restano un po’ conservatori, le esigenze delle persone e le esigenze delle famiglie e le esigenze delle donne e degli uomini stenteranno a essere percepite accolte e raccolte. E’ necessario riflettere su modelli di organizzazione più amicali e forse rispetto a questo tutti dobbiamo fare delle azioni comuni. La P.A. come metafora, insomma, rispetto alle contraddizioni che ancora le donne vivono nel mercato del lavoro; la P.A. come punto di riferimento perchè, anche qui si riscontra una sorta “d’imbuto”, cioè una forte concentrazione di donne impiegate, che si restringe nelle progressioni di carriera. Gli interventi che sono stati apportati nella P.A. , come per esempio l’iniziativa degli asili nido, promossa dal Ministro Brunetta, dal Ministro Carfagna e dal Sottosegretario Giovanardi, puntano a fare nella P.A. e non soltanto in quelle centrali, ma in quelle periferiche asili nido, perché questo è uno, non il solo, degli strumenti che aiuta a risolvere il problema della conciliazione; tutti questi sforzi ritengo debbano convergere in uno sforzo più grande, forse radicale, forse rivoluzionario che è quello di modificare il modello di welfare. Noi abbiamo avuto un modello di welfare assistenziale che ha fatto il suo tempo, che è entrato in crisi che ci ha offerto tutte le disfunzioni di una crisi, noi come società post-moderna dobbiamo arrivare a un modello di welfare che, invece, viene definito tecnicamente sussidiario, comunitario, personalistico; insomma un modello che metta al centro delle sue declinazioni il paradigma della famiglia e di tutte le esigenze che la famiglia in una società complessa come la nostra, incontra.