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RESOCONTO STENOGRAFICO
RAUTI (FdI). Domando di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RAUTI (FdI). Signor Presidente, comincio da qualche dato per ricostruire l’evidenza di un fenomeno che perlopiù resta sommerso. Secondo l’osservatorio Eures, ogni due giorni e mezzo in Italia viene uccisa una donna in ragione del suo essere donna – il che vuol dire una donna ogni sessanta ore – e mentre cala il numero degli omicidi, cresce il numero degli omicidi di donne, i cosiddetti femminicidi, che sono il 36,7 per cento del totale. E ancora – e non sono solo numeri ma persone – nei primi sei mesi del 2018 sono stati denunciati circa 2.600 casi di violenza. Si tratta perlopiù di violenza domestica ma le statistiche ci dicono che sono in crescita anche le violenze di gruppo e che aumenta il numero delle minorenni coinvolte.
Ma ogni dato continua a rappresentare la classica punta del classico iceberg e infatti anche l’Organizzazione mondiale della sanità conferma che la violenza di genere costituisce una questione strutturale, un fenomeno di dimensioni globali che definisce un flagello, un flagello sociale che rappresenta la prima causa di morte delle donne.
Insomma, cari colleghi, è un mondo che attraversa il mondo, una malattia sociale trasversale a tutte le latitudini geografiche, a tutte le appartenenze etniche, a tutti i ceti sociali, alle religioni e all’età. Sono 7 milioni le donne che hanno subito una qualche forma di violenza nella loro vita e negli ultimi dieci anni – lo voglio dire e sottolineare, perché ci si pensa sempre e troppo poco – sono oltre 1.700 gli orfani di femminicidio.
Femminicidio è un termine che usiamo e non conosciamo, un neologismo antico – mi piacerebbe dire – entrato di recente nel dizionario linguistico e nel parlare corrente, ma che racconta un male secolare. Per questo parlo di un neologismo antico. È forse una parola nuova, anche se il fenomeno nella storia accade da sempre e ovunque. Perché usiamo una parola nuova? La usiamo per rafforzare un concetto e per articolare il concetto che ci dice dell’uccisione di una donna in ragione del suo essere donna. Per estensione, femminicidio è non solo questo, ma qualsiasi forma di violenza sistematica esercitata sulle donne, di cui l’omicidio rappresenta l’atto estremo, ma che in genere è preceduto da una serie reiterata di condotte violente, in difetto di una presunta subalternità del genere femminile.
Il termine femminicidio – le parole hanno un senso – è una categoria interpretativa perché introduce nella cultura e, in taluni Paesi, anche nel diritto una percezione diversa delle violenze sulle donne. Si tratta, infatti, di violazioni di diritti umani. Questo è il punto. Ha pensato a chiarirlo la criminologa statunitense Diana Russel, che ha canonizzato questo termine intendendo l’omicidio volontario di donna in quanto donna. È andata ancora più avanti l’antropologa e parlamentare messicana Marcela Lagarde, che ha dato al termine un’interpretazione estensiva, che ha stigmatizzato il concetto e che, addirittura, nel Parlamento messicano non solo ha introdotto una Commissione, come la nostra, d’inchiesta sul femminicidio, ma è arrivata a denunciare quell’aspetto di diritto consuetudinario che fa sì che un omicidio di donna sia meno grave di un omicidio. Sempre Lagarde è riuscita, sulla base anche del lavoro della Commissione, a far introdurre nel codice del Paese il reato di femminicidio o la sua aggravante (una nuova fattispecie e una aggravante). In Europa non esiste in alcun ordinamento questo reato, come non esiste in Italia. Cionondimeno usiamo questo termine, e lo dobbiamo usare con un senso di responsabilità.
Molto altro potremmo dire arrivando a toccare le coscienze di ognuno presente in quest’Aula, ma dobbiamo partire da un assunto. L’istituzione della Commissione che oggi discutiamo è in linea con un bisogno, con le direttive internazionali e, non da ultimo, con la Convenzione di Istanbul, che l’Italia non solo ha sottoscritto, ma ha anche ratificato tra i primi. La Convenzione di Istanbul – non lo dimentichiamo mai – è il primo strumento internazionale, giuridicamente vincolante, per proteggere le donne, per prevenire la violenza domestica e per perseguire i trasgressori, riaffermando quel principio, ormai inserito nel diritto internazionale, della violenza sulle donne come violazione di diritti umani fondamentali.
Sono tante le tappe che portano a questa conquista e a questa affermazione. Io ne voglio ricordare soltanto quattro delle tante che potrei. Parto dalla prima, dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 e dall’abolizione dal nostro ordinamento dell’attenuante del cosiddetto delitto d’onore nel 1981; avevo vent’anni.
E poi ancora, cito la legge delle leggi sulla materia: la legge n. 66 del 1996, frutto di un dibattito parlamentare, durato oltre quindici anni, per arrivare a un’intesa trasversale e per sancire un principio che le giovani forse danno per scontato, ma che scontato non era. Infatti, è soltanto con la legge del 1996 – mio figlio aveva già un anno – che le violenze sessuali sono non più «reati contro la moralità pubblica e il buon costume», ma «reati contro la persona»: una conquista tardiva – direi – in un Paese civile.
Ancora, la terza tappa fondamentale è la legge n. 38 del 2009, la cosiddetta legge anti-stalking, quella legge che va a colmare una lacuna grave e pericolosa, introducendo una nuova fattispecie di reato sulle condotte di persecuzione reiterate.
Da ultimo, vi è la legge n. 119 del 2013, che rafforza quanto previsto dalla cosiddetta legge anti-stalking, introducendo aggravanti e novità fondamentali. Non entro nel dettaglio normativo, ma la chiamiamo impropriamente «legge anti-femminicidio», quando non lo è, perché non esiste questo reato, ma è una legge che punisce gli autori della violenza.
In conclusione, è necessario che si prosegua sul cammino già segnato precedentemente e riteniamo necessario istituire anche in questa legislatura la Commissione d’inchiesta sul femminicidio. E lo riteniamo non solo sulla base di quei dati che vi ho riferito, ma perché è un’esigenza reale; non si pensi che sia retorica femminile e non si pensi che su materie di questo genere ci possa essere un copyright ideologico. È un’esigenza reale, perché esiste un fenomeno strutturale e complesso, con dimensioni quantitative, ma soprattutto con coinvolgimenti qualitativi di vittime e persone.
Il Gruppo Fratelli d’Italia voterà a favore dell’istituzione della Commissione, anche se – voglio sottolinearlo – manca tra i suoi compiti, purtroppo, il monitoraggio, che è un aspetto invece molto delicato e controverso, perché in Italia abbiamo delle stime, ma non delle statistiche, e questo aspetto è un vulnus della Commissione.
Voteremo per la sua istituzione anche se manca, nel quadro delle violenze sulle donne, tutta quella pratica abominevole dell’utero in affitto, che è una pratica di mercificazione sul corpo femminile. (Applausi dal Gruppo FdI).
Mi auguro che nell’attività della Commissione si colmi siffatto vuoto e si parli in sincerità di questo sfruttamento del corpo femminile, che è sfruttamento della povertà delle donne.
Nonostante queste lacune, voteremo a favore dell’istituzione della Commissione perché crediamo sia necessario e utile per la dimensione qualitativa e quantitativa della violenza di genere e perché questa battaglia ci si impone come sfida di civiltà e come educazione culturale e ai sentimenti.
Non è una questione di donne – e sono contenta che siano intervenuti anche dei colleghi – e non è un fatto individuale, ma è la difesa di un bene comune, dei diritti fondamentali e delle libertà individuali. Questo sì è un impegno che richiama tutti, nessuno escluso, a un’assunzione di responsabilità collettiva e condivisa, nella convinzione che le leggi da sole non bastano, nella convinzione che le Commissioni speciali da sole non bastano, se non sono accompagnate da un cambiamento culturale e di mentalità. (Applausi dai Gruppi FdI e FI-BP).
Resoconto stenografico della 48ª seduta pubblica del 16 ottobre 2018
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