Atto n. 4-05043
Pubblicato il 9 marzo 2021, nella seduta n. 304
CIRIANI , FAZZOLARI , RAUTI , BALBONI , BARBARO , CALANDRINI , DE BERTOLDI , DE CARLO , GARNERO SANTANCHE’ , IANNONE , LA PIETRA , LA RUSSA , MAFFONI , NASTRI , PETRENGA , RUSPANDINI , TOTARO , URSO , ZAFFINI – Al Ministro della giustizia. -Premesso che, per quanto risulta agli interroganti:
in data 6 marzo 2021, il quotidiano “la Repubblica” pubblicava un articolo dal titolo “Giorgia Meloni fece avere 35.000 euro a un clan di nomadi per la campagna elettorale. La rivelazione di un pentito alla DDA di Roma”, nel quale venivano riportate le dichiarazioni di Agostino Riccardo, un collaboratore di giustizia, che avrebbe riferito agli inquirenti che l’ex parlamentare Pasquale Maietta, durante la campagna elettorale del 2013, avrebbe rappresentato verbalmente alla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, la necessità pagare le persone che si erano occupate delle affissioni di manifesti a Latina;
sempre in base a quanto riportato dall’articolo, il giorno successivo, un non meglio precisato “segretario” della Presidente avrebbe consegnato allo stesso pentito 35.000 euro in una “busta di carta del pane”, presso un distributore di benzina in zona EUR a Roma;
il racconto prosegue illustrando una serie di circostanze ulteriori, quali presunte minacce rivolte dal clan all’on. Fabio Rampelli al fine di farlo optare per un collegio che consentisse a Maietta di accedere alla Camera dei deputati, nonché, ancora, il ruolo rivestito dal medesimo clan, oltre che nelle affissioni, anche per la “compravendita” di voti su Latina per alcuni politici allora attivi sul territorio pontino, quali, oltre a Maietta, Di Giorgi, Adinolfi, Cetrone, Tripodi e Calandrini;
tutte queste dichiarazioni sarebbero state raccolte dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Roma Fasanelli e Spinelli, e in data 7 marzo un articolo della testata locale “Latina Oggi” avrebbe evidenziato come tali dichiarazioni sarebbero state raccolte in verbali del lontano 2018, e che, solo due mesi dopo averle rilasciate, lo stesso pentito rettificava la sua dichiarazione dinanzi al pubblico ministero Barbara Zuin;
gli interroganti, alla luce delle tesi e ricostruzioni tendenziose veicolate e diffuse con preoccupante superficialità da autorevoli organi di informazione nazionali, considerano necessario e opportuno rimarcare l’unico fatto concreto, effettivo, reale, verificato e verificabile, connesso alla scabrosa vicenda, cioè che la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, non è mai stata attinta da alcuna notifica per il procedimento penale di cui si tratta, e che, analogamente, nessun inquirente in questi anni ha mai ritenuto di chiederle conto delle vicende narrate dal pentito: vicende evidentemente ascritte (come del resto sarebbe ragionevole e agevole desumere dalle diverse contraddizioni tra le varie dichiarazioni rese nell’ambito del caso), ad un piano di insufficiente attendibilità e veridicità;
è doveroso sottolineare al riguardo come l’attendibilità del collaboratore di giustizia che ha reso tali dichiarazioni, secondo quanto riportato dalla stampa, sia stata ampiamente messa in dubbio in sede processuale nell’ambito di un altro processo, in corso a Benevento, per gravissimi reati nel quale egli è coinvolto e nell’ambito del quale avrebbe reso dichiarazioni concordate con altro detenuto, in quello che è definito dalla stampa come “una sorta di patto tra gole profonde (…) per guadagnare punti agli occhi dei magistrati antimafia”;
non si può del resto, in casi così eclatanti e in considerazione delle rilevanti conseguenze che da questi possono promanare sull’equilibrio democratico della nazione, ignorare (o fingere di ignorare) che proprio l’attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, come tra l’altro affermato chiaramente dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sentenza n. 41347 del 6 ottobre 2014), è e deve essere oggetto di un approfondito, preventivo, generale e indefettibile esame, al fine di verificare la sussistenza di tutti quei presupposti “senza i quali quelli successivi di credibilità intrinseca e coerenza e logica interna, e di ricerca di riscontri esterni appaiono incompleti e non autosufficienti, oltre che secondari”;
verifiche prudenziali, doverose e necessarie, dunque, che invece il quotidiano nazionale “la Repubblica”, pur in considerazione della poderosa portata lesiva per il decoro, l’onore e la reputazione della presidente di Fratelli d’Italia e del partito tutto, non ha minimamente inteso effettuare, così come nel caso di specie non ha evidentemente ritenuto opportuno garantire (chiedendo alla presidente Meloni una dichiarazione in merito ai gravissimi fatti a lei attribuiti) una corretta attuazione del principio del contraddittorio, al quale sarebbe stato invece doveroso attenersi dato il tenore dirompente e potenzialmente destabilizzante per l’ordine democratico di tali ricostruzioni, specie in un momento estremamente delicato come quello attuale nel quale, è utile ricordare, il partito di Fratelli d’Italia costituisce l’unica opposizione nel contesto politico e istituzionale nazionale, incontrando, oltretutto, evidenti e notorie difficoltà nel vedersi riconoscere quei legittimi spazi che in Parlamento sono riservati per legge alle opposizioni, con ogni conseguenza in ordine all’alterazione del sistema costituzionale di pesi e contrappesi posto a presidio della rappresentanza politica;
a tutela della riservatezza nello svolgimento delle indagini il nostro ordinamento prevede precisi principi, stringendo il pubblico ministero all’osservanza di quanto disposto dall’articolo 111 della Costituzione, nonché dall’articolo 1 del decreto legislativo n. 106 del 2006, a mente del quale il procuratore della Repubblica è tenuto ad assicurare il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale, nonché il rispetto delle norme sul giusto processo da parte del suo ufficio;
ancora, in materia di illeciti penali dei magistrati nell’esercizio delle funzioni, l’articolo 2, comma 1, lettera u), del decreto legislativo n. 109 del 2006, qualifica come illeciti disciplinari “la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui”, mentre ancora l’articolo 326 del codice penale punisce con la reclusione da 6 mesi a 3 anni il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza,
si chiede di sapere:
se il Ministro in indirizzo non consideri necessario approfondire la vicenda dell’illegittima divulgazione di notizie rese alla testata giornalistica, contenute in verbali secretati e oggetto delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Latina;
se non ritenga necessario e urgente, nell’ambito delle proprie competenze, esercitare il potere ispettivo che gli è proprio al fine di verificare il corretto esercizio della funzione giudiziaria, mediante l’invio di ispettori che verifichino la corretta e coerente tenuta della riservatezza dei fascicoli;
se intenda riferire alle Camere l’esito dell’attività ispettiva, in particolare con riferimento agli aspetti relativi alla divulgazione di notizie non solo secretate, ma anche prive di riscontri oggettivi e di seguito giudiziario, effettuate ai danni dell’unico partito oggi sedente all’opposizione, per il tramite di una testata giornalistica nazionale, ciò nell’ottica di tutelare il sereno svolgimento della dialettica democratica e affinché la giustizia non sia usata come arma di lotta politica contro l’opposizione.
[Fonte: www.senato.it]