Conferenza internazionale
“L’impatto di genere dei sistemi previdenziali: un confronto con i paesi del Mediterraneo”
Roma, 16 dicembre 2009
Intervento di Isabella Rauti
Capo Dipartimento del Ministero per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri
Il dipartimento per le Pari Opportunità, che rappresento, ha patrocinato e sostenuto questa ricerca di carattere quali-quantitativo e ne voglio sottolineare un aspetto che riteniamo speciale e innovativo; in quanto, rilevazione e ricerche sulla condizione femminile nel mercato e nel mondo del lavoro ce ne sono molte, ma una ricerca avviata da un osservatorio privilegiato, quale è l’Ente che ci ospita (I.N.P.D.A.P.) e che guarda, pertanto, ai sistemi previdenziali, è per noi un elemento di novità e un elemento di estremo interesse, soprattutto in un contesto globale di crisi e di recessione economica. Questa ricerca ha consentito, (ed era uno degli obiettivi), di creare una rete di collegamento e quindi di confronto tra le associazioni femminili, (impegnate nella difesa dei diritti femminili) e gli istituti e gli enti previdenziali e di sicurezza sociale.
Questo, per noi, è un valore aggiunto. Anche l’idea di questa rete che guarda all’area mediterranea e che in realtà si confronta, è un elemento che reputiamo una premessa per ulteriori sviluppi e forme di collaborazione. C’è un nodo di fondo che la ricerca affronta, cioè la presenza, ormai accertata, dal punto di vista quantitativo e statistico oltre che di percezione sociale, di differenziali retributivi esalariali tra uomini e donne che riguardano non soltanto il settore privato, ma anche il settore pubblico. E soprattutto, questo nodo di fondo, viene letto nella sua inevitabile e negativa ricaduta sui sistemi pensionistici perché esiste un impatto di genere su tali sistemi! Personalmente, ritengo che sarebbe necessario introdurre nelle amministrazioni pubbliche, bilanci e statistiche di genere per valutare le strutture, le composizioni, le carriere, i salari delle donne e degli uomini e la ricaduta sui sistemi pensionistici. In Italia non abbiamo statistiche di genere; solo l’Istat fa statistiche di genere. Le statistiche ed i bilanci di genere ci permetterebbero di studiare, di quantificare, di analizzare il fenomeno di cui parliamo, anche nell’idea, penso questa condivisibile, che nessuna scelta economica siamai neutra perché ha ricadute diverse sul genere femminile e sul genere maschile. Ma tornando al tema centrale e di oggi, la ricerca affronta il nodo che a mio avviso è un nodo di fondo, quello del differenziale retributivo; che qualche anno fa, quando se ne cominciò a parlare, sembrava una fantasia negativa, inventata, neutra, oggi gode invece di una quantificazione e di una rilevazione statistica. I differenziali retributivi e salariali tra uomo e donna, a parità di condizione e di lavoro svolto, non sono presenti nella busta paga ufficiale, (la legge in Italia lo vieta) ma si annidano, si nascondono e si radicano nella parte cosiddetta “accessoria” della busta paga, cioè quella dove confluiscono le voci quali: premi di produttività, benefit, straordinario, ecc ecc, è in questa fascia grigia che si sviluppano i differenziali retributivi. La prima denuncia venne dal mondo anglosassone, che rappresentò statisticamente i differenziali retributivi uomo-donna in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti, l’Europa si accorse che questo fenomeno era – ed è – diffuso anche nei paesi dell’Unione, e le strategie europee per le pari opportunità considerano il fenomeno come una delle questioni da affrontare per realizzare la parità effettiva. Per quanto riguarda il nostro Paese, le stime del differenziale oscillano, secondo la più recente rilevazione dell’Eurostat, intorno ai 9% di punti di differenza; mentre l’Eurispes denuncia un 16%, con oltre stime che toccano il 23% o anche il 27%. Tale differenziale di genere si colloca in un contesto occupazionale, che, nonostante gli incrementi di occupazione femminile, registra comunque una percentuale di 10 punti inferiori rispetto alla media occupazionale europea. In questo contesto di riferimento, la ricerca evidenzia ed analizza quelle che sono da sempre le criticità che circondano la presenza delle donne nel mondo del lavoro. Le donne sono penalizzate non tanto nell’ingresso nel mondo del lavoro, quanto nella permanenza e nel rientro nel mondo del lavoro dopo esserne uscite per esigenze, generalmente, legate al cosiddetto “lavoro di cura”, sia che questo riguardi la crescita dei figli sia che riguardi l’assistenza della terza e della quarta età. Tutto ciò, naturalmente, comporta carriere più brevi ma soprattutto una segmentazione del percorso professionale, una frammentazione che le donne scontano all’interno del mondo del lavoro e la segmentazione dei percorsi professionali ha una ricaduta inequivocabile sui sistemi previdenziali. Non entro nel merito della recente riforma del sistema previdenziale, voglio solo evidenziare una linea d’indirizzo: il “fondo”, ottenuto dal risparmio dovuto all’elevamento dell’età pensionabile femminile, e che sarà allocato presso la Presidenza del Consiglio, verrà utilizzato esclusivamente per incoraggiare il lavoro femminile e per sostenere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Voglio citare un’iniziativa concreta e recente: il ministro per la Pari Opportunità, Carfagna, insieme al ministro Brunetta e al sottosegretario Giovanardi hanno sottoscritto un protocollo finalizzato all’emanazione di bandi, (in corso di pubblicazione in questi giorni sui siti istituzionali), per la creazione di asili nido nella Pubblica Amministrazione, privilegiando soprattutto le sedi periferiche rispetto a quelle centrali, e tutte quelle sedi che non sono dotate di asili nido. Lo start-up di queste strutture (primo e secondo anno), sarà finanziato con risorse già stanziate dal ministero che rappresento e dal sottosegretariato alla famiglia. Per il problema del mantenimento delle strutture si è impegnato il ministro Brunetta che reperirà nell’ambito del suddetto fondo di risparmio, le risorse necessarie nel tempo. Questo non è ancora un modello nazionale di welfare, ma è un importante e concreta “buona prassi”, poiché sappiamo tutti che la questione irrisolta della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro contribuisce enormemente a quella segmentazione del percorso delle donne, di cui dicevamo prima, e soprattutto la irrisolta questione della conciliazione, condiziona la vita delle donne nel mondo del lavoro e anche nel loro ruolo sociale. Tornando alle criticità di fondo che la ricerca va adanalizzare e a stigmatizzare, è evidente che la questione più grande è proprio la segmentazione dei percorsi lavorativi alla quale si aggiunge la discontinuità con un effetto combinato e negativo sui sistemi previdenziali. Un altro aspetto veramente apprezzabile della ricerca è quello di mettere aconfronto modelli previdenziali dei Paesi che si affacciano nell’area mediterranea; area mediterranea che noi possiamo intendere, come è stata intesa, dallo storico Braudel un “continente liquido”, un luogo di confronto, che non deve essere di scontro tra le identità ma di confronto e dialogo come è stato per molti anni nella storia della nostra antica civiltà. Guardare ai sistemi previdenziali di Paesi amici può senz’altro contribuire a creare quello che necessariamente deve diventare un modello mediterraneo per i sistemi previdenziali ma, io aggiungerei, un “modello sociale mediterraneo”. Un modello che vada a proporsi come alternativo e risolutivo rispetto alla crisi economica globale. Questo modello mediterraneo di welfare non può più essere un modello assistenziale, che ha dimostrato tutti i suoi limiti e i suoi guasti; non può neanche essere più un modello creato per una società fordista (dalla quale siamo usciti), infatti siamo in una società post-fordista, e serve un modello di welfare, familistico, comunitario, sussidiario, che sappia mettere al centro delle sue declinazioni i bisogni reali delle persone, delle famiglie, delle donne e degli uomini che lavorano, ma soprattutto un modello che sappia declinare e difendere i diritti dicittadinanza e ancora: un modello che sappia investire sulle differenze, comprese quelle di genere, e sulle diversità, che sono la ricchezza dell’area mediterranea. Un modello che non veda nella diversità una minaccia ma una risorsa e sappia investire sul potenziale delle differenze di genere e delle differenze intese in senso più ampio. Questo modello potrebbe correggere le numerose asimmetrie di genere che ancora riscontriamo nel mondo del lavoro ma che riguardano anche i meccanismi politici della rappresentanza e quindi della democrazia, che non riesce ad essere effettivamente paritaria; e, ancora, riguardano i sistemi economici, insomma, tutti quei meccanismi nei quali siamo immersi e nei quali si riscontrano asimmetrie quantitative, segregazioni, in unaparola sola, forme discriminatorie dirette e indirette, con segregazioni di tipo verticale e come si dice tecnicamenteanche con segregazioni di tipo orizzontale. Infine, ritengo che la ricerca potrà contribuire nell’articolazione di questo modello di
welfare mediterraneo, ritengo anche che per il Dipartimento Pari Opportunità questo lavoro ed i suoi sviluppi siano un elemento di grande ricchezza. Sarà l’inizio, spero, di una catena di collaborazioni, di sinergie, di confronti e anche di meccanismi internazionali necessari, poiché, nessuno di noi può pensaredi fare politiche economiche esociali che abbiano come unico orizzonte quello nazionale. Ci troviamo in un contesto internazionale e globalizzato come la crisi è globale, ci affacciamo sull’area mediterranea e siamo figli della sua civiltà comune tutte le politiche devono avere un respiro ed una compatibilità internazionali. Questa ricerca ci aiuterà anche su questo versante ma anche sul fronte delle scelte politiche nazionali in quanto, stigmatizzando le criticità ci indica meccanismi e correttivi tali da ridurre le asimmetrie e assicurare una tutela antidiscriminatoria ed inclusione sociale.
Grazie.