Il primo segnale è arrivato dagli Stati Uniti dove – secondo uno studio elaborato dal General Accounting Office – le donne guadagnano meno rispetto ai colleghi uomini; le donne americane – a parità di incarico e di carriera – percepiscono stipendi più bassi del 27% circa rispetto agli uomini.
Il fenomeno della disparità di genere nelle retribuzioni è anche europeo ed è dovuto, in parte, ai processi di segmentazione del mercato del lavoro che favoriscono il reinserimento delle donne nel mondo del lavoro in posti poco retribuiti e, in parte, alla sottostima riservata alle occupazioni tradizionalmente femminili. L’Unione Europea può vantare il suo impegno in merito alla parità salariale – che è stata posta tra gli obiettivi sia del IV che del V Programma di Azione Comunitaria, nell’asse per la parità di opportunità tra donne e uomini – ma nonostante gli sforzi compiuti il divario retributivo persiste. Le differenze retributive riguardano tutti gli Stati Membri, con entità diverse, sia nel settore manifatturiero che nel terziario, privato e pubblico.
Il 20 settembre 2001, il Parlamento europeo è intervenuto con una risoluzione sulla parità di retribuzione per lavoro di pari valore, in considerazione che – nonostante gli sforzi compiuti verso la realizzazione della parità retributiva – i differenziali salariali permangono. Lo scarto retributivo medio fra donne e uomini nell’Unione Europea è del 28% e pur considerando le differenze strutturali nel mercato del lavoro tra uomini e donne e tenendo sotto controllo le sue variabili quali l’età, l’istruzione, la professione ed il settore d’attività e, lo svolgimento delle carriere, le retribuzioni delle donne sono comunque mediamente inferiori del 15% a quelle degli uomini nell’Unione a 25 (del 16% nell’Europa dei Quindici, Fonte Eurostat). La Risoluzione considera tale gap retributivo medio ascrivibile a meccanismi di “discriminazione di valore” nei casi di retribuzione ineguale per lavori di pari valore e, alle “discriminazioni dirette” nei casi di retribuzione ineguale a parità di lavoro, in cui si verifica una sottovalutazione delle peculiarità femminili nel processo di formazione delle retribuzioni. In quest’ottica si ritiene che il differenziale salariale possa essere ridotto intervenendo su più piani: migliorando lo status delle donne nel mercato del lavoro; riducendo le differenze strutturali di genere nel mondo del lavoro; eliminando le discriminazioni in sede di formazione delle retribuzioni; fornendo strumenti di conciliazione tra la vita lavorativa e gli impegni del lavoro di cura familiare. Le indicazioni più recenti da parte della Comunità europea puntano – insomma – a denunciare e correggere tutte le forme di segregazione orizzontale e verticale, tra uomini e donne sul mercato del lavoro che producono differenze retributive in pari condizioni di lavoro e in lavori diversi ossia nei “settori femminili”. E, in considerazione che i dati statistici a livello europeo sullo scarto retributivo sono incompleti, gli Stati membri sono chiamati a migliorare la raccolta dei dati ed a procedere nella disaggregazione per genere e settore, con indicatori non solo descrittivi ma anche interpretativi, quali – ad esempio – l’incidenza salariale della combinazione di lavoro extradomestico e vita familiare, l’incidenza dell’organizzazione del lavoro sulla struttura salariale delle donne.
Ma come si spiega il differenziale retributivo? Il gap di retribuzione dipende in parte dal fatto che – in linea generale – nel mercato del lavoro gli uomini occupano posizioni più elevate di carriera e sono maggiormente presenti nei comparti dove le retribuzioni sono più alte o più garantite. Ma non è tutto, infatti, la spiegazione si trova anche in quella parte di cosiddetto “salario accessorio” e lo scarto retributivo femminile si configura con un maggior numero di assenze, un minor numero di ore lavorate e di ore di straordinario – aspetti riconducibili agli obblighi familiari e di cura – nonché meno “premi produttività” ed altre voci assimilabili.
In Italia – nonostante la legge n.903 del 9 dicembre 1977 sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro – le donne guadagnano meno dei colleghi uomini, anche a parità di titolo di studio, settore lavorativo e livello di qualifica (discriminazione orizzontale) e tale svantaggio cresce con l’avanzare dell’età e della carriera (discriminazione verticale e difficoltà di raggiungere i vertici dei livelli occupazionali).
Il differenziale retributivo si presenta come una caratteristica strutturale del mercato del lavoro italiano – ma anche europeo, come abbiamo visto – e benchè lo squilibrio retributivo si sia ridotto progressivamente negli ultimi anni in parallelo con il costante aumento del tasso di lavoro femminile, i valori del dislivello restano alti (media del 24% ). Il gap è più marcato nelle posizioni lavorative in cui il reddito medio è più elevato e nelle professioni più qualificate ma è molto alto anche nel settore operaio e terziario privato. E la discriminazione salariale si accentua nelle forme di lavoro atipiche, in cui le donne percepiscono salari più bassi e vivono una maggiore discontinuità dei profili lavorativi.
I dati mostrano anche che il dislivello salariale è intimamente legato all’età; intorno ai 35 anni, quando i carichi familiari diventano più pressanti (cura dei figli ed assistenza agli anziani), la componente femminile tende ad uscire dal mondo del lavoro o ad intraprendere forme di lavoro parziale.
Le differenze retributive sono uno dei nodi di fondo del mercato del lavoro e benché sia questione più nota che veramente conosciuta, comincia ad accreditarsi sul fronte del dibattito politico europeo. La Francia , ad esempio, ha deciso di intervenire, per eliminare “gli scompensi” salariali di genere, con un disegno di legge per l’equiparazione salariale a parità di mansione, presentato dal Governo e che verrà discusso in Parlamento nel mese di maggio.
“Eguaglianza all’orizzonte 2010”, titolava in prima pagina “Le Monde” del 25 marzo scorso, contribuendo al dibattito in corso nel Paese e cominciato già all’inizio dell’anno quando il Presidente della Repubblica Chirac aveva sollecitato un intervento legislativo che sradicasse quella che ha definito “una disuguaglianza inaccettabile per ragioni morali ed economiche”. E così la Francia ci riprova, dopo gli interventi legislativi fatti in materia di uguaglianza salariale nel 1983 e nel 2001!
E mentre pensiamo agli obiettivi 2010, stabiliti dalla strategia europea elaborata a Lisbona, di competitività, di incremento del lavoro, con il “miraggio” del 60% di occupazione femminile, torniamo a constatare lo scarto esistente tra una parità formale e descrittiva ed una parità sostanziale ed effettiva.
Isabella Rauti