Violenza e guerra, legame antico.
Nell’epoca post moderna fanno parte della strategia genocida.
Al direttore – Le donne come bottino di guerra. Dal Ratto delle sabine alle “marocchinate” della Ciociaria, dagli stupri in Sudan al ratto delle studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Gli stupri di massa riempiono la storia antica, medioevale, moderna e contemporanea. Oggi come allora, ieri come sempre, da secoli. Un mondo che attraversa il mondo, una storia infinita che attraversa il tempo. Il lato nascosto della guerra e uno dei più grandi silenzi della storia. Donne e bambine come bottino di guerra: vendute al mercato, scambiate per barili di petrolio, ridotte in schiavitù sessuale e lavorativa, costrette a matrimoni precoci, violentate: lo stupro come arma e strategia di guerra; ma anche lo stupro come forma di genocidio e come arma di pulizia etnica. E se lo stupro, individuale o di massa, nei tempi di pace come nei tempi di guerra, è sempre e comunque esercizio di forza, dominio, potenza e supremazia – insomma una parata trionfale per punire e umiliare il nemico – durante i conflitti internazionali o interni può avere uno scopo strategico, essere uno strumento, di intimidazione politica, diventare una tattica sistematica, un’arma di guerra psicologica per terrorizzare una popolazione, destabilizzare un’area, disgregare comunità e modificarne la composizione etnica, costringere all’abbandono del territorio.
La Seconda guerra mondiale è stata contrassegnata dagli stupri di massa, ma i tribunali istituiti per perseguire i crimini di guerra non hanno riconosciuto il reato di violenza sessuale. Durante le guerre nell’ex Yugoslavia, lo stupro è stato usato sistematicamente come strumento di pulizia etnica e di genocidio e l’Onu stima che siano state stuprate tra le 20 mila e le 50 mila donne bosniache. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia ha dichiarato che “lo stupro sistematico” e la “riduzione in schiavitù sessuale” in tempo di guerra è stato un crimine contro l’umanità, secondo solo al crimine di guerra di genocidio. Poche le denunce formalizzate e pochissime le condanne. Il sommerso che si nasconde è enorme e migliaia di donne che sono state vittime di violenza sessuale restano in attesa di giustizia. Durante il genocidio del Ruanda sono state violentate oltre 400 mila donne e il Tribunale penale internazionale per il Ruanda ha dichiarato che lo stupro è un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità. Oltre 200 mila donne sono state stuprate durante il ventennale conflitto della Repubblica democratica del Congo e centinaia di migliaia nei conflitti in Sierra Leone e in Liberia. Un buco nero nella storia. In Siria tra il 2011 e il 2013 sono stati denunciati oltre 70 mila casi di abusi e violenze sessuali; a Raqqa, conquistata dall’Isis, i miliziani vietano alle donne con meno di 45 anni di lasciare la città, così da costringerle a sposare i combattenti di Daesh. E potremmo continuare.
La violenza sessuale nei conflitti è stata definita dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, come “la brutalità efficiente perpretata impunemente” E’ a fronte dello stigma che spesso perseguita le vittime – cui spetta anche l’onere della prova – si innalza il muro dell’impunità degli autori del reato. Le violenze di genere e lo stupro nei conflitti armati – condannati già dalle Convenzioni di Ginevra – oggi rappresentano un nodo ineludibile nelle questioni internazionali di pace e di sicurezza umana e trovano spazio nell’agenda onusiana in termini di sanzioni del reato (come violazione dei diritti umani e crimine internazionale) e di misure di prevenzione, protezione e assistenza alle vittime. In particolare, le risoluzioni 1820 del 2008, 1888 e 1889 del 2009 del Consiglio di sicurezza “istituzionalizzano” la questione e segnano un approccio nuovo della comunità internazionale che riconosce le violenze sessuali e gli stupri nelle guerre e nei conflitti armati come una minaccia ai processi di costruzione di pace. Anche il Consiglio europeo è intervenuto, nel 2008, con due specifiche risoluzioni. La pratica antica dello stupro come arma specifica di guerra è stata tollerata come una tragica fatalità, considerata un “sottoprodotto” della guerra, un suo effetto collaterale inevitabile. Ha fatto comodo parlarne poco nei negoziati di pace, nei programmi di disarmo e negli accordi di tregua; è stato utile far finta di non vedere e di non sapere anche quando le violenze si perpretavano mentre le armi tacevano. Le vittorie in tribunale segnano un percorso ma non cambiano il corso della storia e non guariscono la realtà. Lo stupro e le violenze sessuali nei conflitti armati sono una questione sommersa e diffusa che colpisce donne e bambine, ma anche uomini, ragazzi e bambini. E almeno nella percezione collettiva non si tratta più di una “questione di donne” ma di un fenomeno sociale e talvolta strategico; i conflitti più recenti hanno dimostrato che lo stupro può essere utilizzato come arma di guerra, rispondente ai nuovi volti della guerra post moderna: asimmetrica e totale; alle guerriglie, ai gruppi armati irregolari, ai conflitti interni ed etnici, con il rischio crescente di coinvolgimento dei civili. “Le violenze sessuali sono sempre meno una conseguenza della guerra – scrive Karima Guenivet in “Stupri di guerra” – e sempre più un’arma utilizzata a fini di terrore politico, di sradicamento di un gruppo, di un disegno di genocidio e di una volontà di epurazione etnica”. Ed è vero.
Isabella Rauti