Se e cosa rischia Milano a salire così tanto e così in fretta? Federico Aldini, 56 anni, da 30 anni nello studio di Beretta associati, che in città firma due grattacieli, Torre Milano appena conclusa e «Hippodrome», ora è (anche) presidente dell’ordine degli architetti. È milanese. Conosce bene la vecchia Milano e contribuisce a costruire quella del futuro. «La città in altezza è abbastanza una novità. A parte la torre di Giò Ponti e la Torre Velasca, non c’erano grandi esempi di architettura di questo tipo. Poi negli ultimi 20 anni c’è stata un’esplosione di progetti che mirano verso l’alto».
Cosa è scattato, è solo una questione di spazio o c’è dell’altro?
«La politica recente, non solo milanese, per liberare lo spazio a terra tende ad alzare gli edifici. Un principio che si ritrova anche nel nostro strumento urbanistico, il Pgt. In alcune situazioni l’edificio in altezza è quello che riesce a tenere insieme l’inserimento di una certa volumetria lasciando libero il territorio. Anche se ultimamente si tende a demonizzare un po’ gli edifici in altezza. L’ho vissuto con il progetto di Torre Milano sviluppata da Impresa Rusconi ma si ripete abbastanza spesso. Lo trovo profondamente sbagliato».
Quello che spaventa è che grattacielo sia sinonimo di esclusività, che questi stabili siano orientati solo al mercato del lusso.
«Tutto è relativo, costruire in altezza può costare un po’ di più, ma non è necessariamente così. Quello che fa la differenza è l’«attacco a terra» quella parte che trova il suo rapporto con il contesto intorno. Poi ci sono zone dove si può fare altre no. Queste sono valutazioni che può fare il professionista ma che deve fare necessariamente lo strumento urbanistico. Parlo sia da architetto che da presidente dell’ordine. Per noi professionisti la cosa grave quando si formano questi comitati a progetti già completati nel rispetto delle regole è che questo mette dubbi sull’esito e sulle procedure. Se c’è uno strumento urbanistico che chiarisce le norme morfologiche, o si può o non si può».
Ora il Pgt è in fase di revisione, tra l’altro.
«E infatti sollecito in questa fase i comitati a presentare le osservazioni al Pgt per regolamentare gli edifici in altezza. Per definire regole chiare in fase di costruzione. A prescindere dal progetto che può essere anche molto bello e coerente con le norme, ora c’è sempre qualcuno che alza la mano, solo perché è alto. Per i professionisti ma anche per gli investitori: è giusto sapere prima e non ritrovarsi a metà percorso con degli ostacoli».
Sono tanti i progetti della Milano che sale. Lei ne ha due. Che idea c’è dietro?
«Torre Milano, appena finito ci ha dato una grande soddisfazione. Prima di essere terminato, erano già stati venduti tutti gli alloggi, 105. Nei due corpi bassi, ci sono microlloggi che formano il piede dell’edificio che va a trovare il rapporto con gli stabili circostanti. Stessa cosa anche nel progetto «Hippodrome» che dovrebbero finire entro inizio 2025. Li ci sono 145 alloggi, anche in quel caso due corpi bassi importanti che trovano rapporto nel contesto».
Andare verso l’alto restando con i piedi per terra quindi. Perché?
«Quello che viene contestato ai progetti che si sviluppano in altezza è che non trovano il rapporto con quello che c’è intorno. Invece è necessario individuare elementi che legano la base dell’edificio al contesto con trasparenze, servizi, spazi pubblici, così il piede si rapporta al quartiere».
Come vede la Milano futura?
«La prospettiva è di rigenerazione urbana. Significa recuperare gli edifici esistenti quando e dove si possono sistemare, mentre in altre zone meglio demolire e costruire il nuovo. In questo caso ci sono situazione in cui sarebbe un peccato non considerare la possibilità di sviluppare gli edifici in altezza. Che non è solo molto razionale, ma lascia più spazio per il verde. Specie sulle aree di contorno alla città».
Non vede il rischio di costruire una città solo di simboli?
«Purtroppo quello che succede in alcune situazioni anche di importanti sviluppi è che manca un po’ la regia pubblica. La rigenerazione senza che ci sia visione generale, rischia di far sì che ogni progetto preveda servizi e spazi per la comunità ma senza una visione unica di quartiere della pianificazione. Ed è un peccato. Adesso il Comune ha fatto due documenti, uno è «Mosaico San Siro» legato al tema stadio sì stadio no, ma in realtà è un lavoro di analisi delle criticità dell’area e recentemente anche sull’area Parco Lambro. Non sono prescrittivi ma comunicano ai eventuali investitori quali sono le intenzioni del Comune. Mi sono trovato io stesso durante lo sviluppo di un progetto a dover realizzare opere pubbliche o a scomputo e il municipio non aveva idea di cosa gli interessava fare. Ho visto fare opere a scomputo inutili perché mancava una visione di insieme».
Come evitare che Milano diventi una città solo per ricchi?
«Sarebbe necessario rimuovere i confini amministrativi del comune di Milano e parlare di città metropolitana. Certo questo significa fare investimenti sulle infrastrutture. spostare servizi e opere pubbliche, capisco che si complicano le cose, ma è necessario. È assurdo che a Milano i prezzi salgono e c’è chi non può permettersi un alloggio quando magari basterebbe collegare un comune satellite dove si riesce a gestire molto meglio sviluppi immobiliari con risorse inferiori».
Quindi sta diventando esclusiva?
«L’amministrazione sta facendo diversi sforzi ma non mi sembra che abbiano avuto grandi esiti. O meglio, solo parzialmente sì. Da anni si parla di allargare la città metropolitana, in fondo Milano è piccina, se non si supera questo scoglio di saltare al di la del confine no c’è soluzione».
C’è un esempio di città da seguire?
«Sono sempre un po’ scetticto, sugli esempi. Ci sono dinamiche talmente diverse. Dovremmo prendere qua e là vari spunti per fare di Milano una città che funziona al meglio».
Cosa non si dovrebbe perdere di Milano?
«La sua identità, stando attenti a non fare che la città in altezza non pensi solo ad avere dei simboli, grandi edifici che non hanno niente di milanese».
[Fonte: www.ilgiornale.it]