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Secolo d’Italia – La conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro

La transizione femminile verso il mondo del lavoro continua a rappresentare una criticità: nell’ingresso, nella permanenza, nel ritorno e nel retravailler dopo la maternità; ci dibattiamo tra paradossi e zone d’ombra, tra queste, il lavoro nero o sommerso (in cui si stima una rilevante presenza femminile), lo sfruttamento del lavoro, lo scarto tra  alta istruzione femminile e bassi risultati professionali, le differenze salariali e retributive, cui si è fatto riferimento ed analisi, su queste stesse colonne, nei giorni scorsi.
La contrazione della forza lavoro giovane, dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione ed ai bassi tassi di natalità, può rappresentare un elemento favorevole all’occupazione delle donne, ma questo soltanto se i cosiddetti lavori di cura non continueranno ad essere affidati e delegati interamente – o comunque in grande misura, come dimostrano  le statistiche di settore – alle donne lavoratrici. In questo contesto il lavoro extradomestico continua a restare parallelo o secondario per le donne, rispetto a quello familiare e il carico familiare incide negativamente sulla permanenza delle donne nel mondo del lavoro e sulla loro presenza nei livelli più alti e nelle posizioni apicali.
I tempi e le modalità del lavoro (dei lavori!) moderno ed i tempi della famiglia non coincidono, e la congiuntura si aggrava quando – appunto –  la cura della famiglia in generale è affidata e delegata interamente alla donna-lavoratrice, che deve riuscire a conciliare i propri impegni professionali con quelli familiari, spesso a scapito della carriera o di opportunità di lavoro migliori.
Questo nodo rinnova la centralità del tema della conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro; dei tempi della famiglia e dei tempi del lavoro extradomestico.
Dall’inizio degli anni novanta, la questione della conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi «di cura» compare nei documenti ufficiali dell’ Unione europea per assumere, progressivamente, un ruolo centrale nelle politiche di pari opportunità, al livello comunitario. Inoltre, l’Unione Europea ha individuato nelle misure di conciliazione un elemento di garanzia per l’acquisizione e l’esercizio delle pari opportunità e per l’inclusione sociale.
Documenti ufficiali a parte, la conciliazione è un nodo da affrontare  non in modo settoriale ma sistemico; ossia come sistema integrato di politiche attive, sociali, lavorative e del territorio e come  intreccio di interventi sugli aspetti strutturali del sistema lavoro italiano, puntando al necessario bilanciamento tra vita e lavoro (work-life balance). Inoltre, e  lo affermiamo senza venature polemiche ma con convinzione, non si può continuare a considerare la conciliazione come una questione femminile o – peggio –  “un affare di donne”;  infatti la sua soluzione non riguarda solo le donne ma  ricade, interessa e coinvolge l’intera società e l’intero sistema-lavoro. Anzi, di più, si tratta di questione di rilievo politico e di rilevanza sociale oltre che di ricaduta economica e produttiva.
Né  lo Stato sociale può chiedere alle famiglie ed alle reti parentali informali (i nonni costituiscono oltre la metà del welfare locale in termini di erogazione di servizi alla persona) di fare gli “ammortizzatori sociali” e di colmare le lacune nell’offerta di beni e servizi.
Anche se l’occupazione femminile è cresciuta e continua a crescere in tutti i tipi di lavoro e, tendenzialmente, migliora la posizione lavorativa della donna, resta irrisolta la questione della conciliazione tra lavoro e famiglia e si mantengono alcune criticità trasversali alle diverse zone del Paese. Il problema della conciliazione incide sull’accesso al mercato del lavoro, sulla progressione  di carriera, sull’ascesa ai luoghi decisionali politici ed economici, sul mantenimento del lavoro nel momento in cui nascono i figli e nel ricollocamento lavorativo dopo l’uscita per maternità.
E’ stato recentemente calcolato (dati Istat-Cnel) che il 20,1% delle madri occupate al momento della gravidanza, lascia il posto di lavoro dopo la nascita del primo figlio; 6 neomadri lavoratrici su cento vengono licenziate dopo il parto, il 14 % di chi lavorava in gravidanza, abbandona il lavoro,  perché complessivamente l’occupazione si rivela poco conveniente (soprattutto nel settore privato e negli impieghi precari e poco remunerati) e comunque difficilmente conciliabile con i  nuovi impegni familiari. Inoltre, la maternità è stata progressivamente svuotata del suo valore sociale e della sua centralità per essere scaricata interamente sulle spalle delle donne e delle famiglie, vissuta – quindi – come una fatto ed un “carico” privato cui privatamente “fare fronte”; in questi termini la maternità non può essere vissuta come scelta autentica ed i desideri di procreazione si scontrano e fanno i conti  con la carenza dei servizi per la prima infanzia, con la scarsità di politiche organiche per la famiglia e con un atteggiamento del mondo del lavoro che non sempre riesce ad “assorbire” la lavoratrice madre. Nonostante le tutele legislative, la maternità non riesce a porsi come libera scelta per una donna che voglia o debba lavorare ma – anzi – si va configurando come un conflitto, un’alternativa ostativa rispetto ai desideri, od agli obblighi, lavorativi e rispetto agli obiettivi di carriera e crescita professionali. E’ anche per questo  – oltre che per la posticipazione delle scelte procreative – che , in Italia, si fanno meno figli di prima e meno figli rispetto alla media europea; siamo – infatti – agli ultimi posti della “graduatoria” europea per il tasso di fertilità cresciuto – di recente – all’1,3 figli per donna e con una media nazionale di un figlio per coppia; il modello ricorrente del figlio unico quello, è la matematica non è un’opinione, che non consente demograficamente la sostituzione numerica dei genitori. Ed è anche per questo, infine, che in Italia le aspettative di fecondità sono sempre al di sopra dei tassi di natalità!
Nel confronto con gli altri Paesi europei, si deve evidenziare – e lo hanno fatto congiuntamente Istat e Cnel (nel lontano 2003, ma non mancano Ricerche più recenti) – che in molti Paesi del Nord Europa è cresciuta la fecondità anche in presenza di un’alta percentuale di occupazione femminile, grazie a politiche familiari e di sostegno alla maternità, di flessibilità degli orari di lavoro, di offerta di servizi, di maggiore corresponsabilità degli uomini nella condivisione del lavoro familiare e di cura.
E’ di evidenza empirica che bisogna intrecciare le politiche di conciliazione dei tempi – affrontate con approccio sistemico, si diceva,  e non settoriale – e dei servizi con i nuovi meccanismi del mondo del lavoro, con i suoi modelli organizzativi, con le  modalità flessibili e non standard di occupazione.
Va evidenziato che, secondo gli studi di settore e gli osservatori specialistici, si sta consolidando una prospettiva innovativa che contestualizza la conciliazione in un quadro più ampio ed articolato di interventi, teso a sviluppare nuovi modelli di organizzazione aziendale e del lavoro e finalizzato a migliorare gli standard di flessibilità, per favorire concretamente la conciliazione “lavoro-famiglia”.
Il mercato del lavoro italiano è stato tradizionalmente caratterizzato, come modello egemone di una società “fordista”, dalla rigidità ma l’attuazione della Riforma Biagi  ha introdotto dinamiche nuove di flessibilità  e nuove forme lavorative. Le novità introdotte nascono anche per favorire l’ingresso dei giovani e delle donne nel mercato del lavoro e possono incoraggiare la conciliazione, favorendo il passaggio dalla cosiddetta ”conciliazione soggettiva” a quella “oggettiva” e realizzare il bilanciamento necessario tra vita e lavoro, quel work-life balance che i tutti i moderni modelli di welfare state attivo indicano come uno degli obiettivi principali da conseguire.

Isabella Rauti

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