Percorso:

Area – La libertà di un “non-modello” rispetto agli stereotipi

Stavolta comincio da una notazione personale  – e ve ne chiedo scusa – che mi serve per introdurre un ragionamento di costume politico, su un atteggiamento mentale diffuso, che mi affligge e non da oggi. Si tratta degli stereotipi, quelli legati al genere maschile e femminile, incrociati a quelli legati alle “etichette” di destra e di sinistra.
Se, poi, consideriamo gli stereotipi che “perseguitano” – nonostante i nostri sforzi !! – le donne di destra, raggiungo il  vertice della afflizione ed, ultimamente, anche dell’insofferenza. Ma andiamo per ordine.

Recentemente, alla fine di un’intervista televisiva, mi veniva chiesto di definire con un aggettivo la differenza tra le donne di destra e le donne di sinistra; per rispondere ho cercato di impostare un ragionamento articolato (come la domanda richiederebbe) ma il conduttore incalzava, voleva l’aggettivo ed uno solo. Seccata, ho risposto, senza ricorrere ad aggettivi, che ci differenzia la “concezione della vita nascente”. Poi, fuori dagli studi televisivi, mi sono chiesta se tale concezione continui a costituire un discrimine di fondo tra le donne di destra e quelle di sinistra. Premesso che, io sono convinta che l’embrione sia un essere umano dal momento del concepimento e che , primo fra tutti, goda del diritto alla vita, non sono più sicura che tra centrodestra e centrosinistra, questa linea di demarcazione sia così netta e “regga” in modo inconfondibile. E qui cominciano i problemi, tra l’immaginario collettivo che preferisci gli stereotipi e “le griglie interpretative” e la difficoltà di far emergere modelli femminili che non rientrino nello schema unico o nei molteplici schemi stereotipati. Lo stereotipo, infatti, è uno schema mentale che si utilizza per semplificare ciò che è complesso e che fornisce soluzioni preconfezionate, evitando di analizzare le criticità. Insomma, lo stereotipo prima di essere strumentale e mistificatorio, è facilitante e rassicurante !

Ma torniamo alle donne. La mia generazione ha scontato una pena. Negli anni Settanta ed Ottanta una donna che faceva politica  doveva, secondo gli stereotipi dominanti, essere di sinistra e se per caso si ostinasse ad essere di destra ed a  voler fare politica, doveva necessariamente essere non libera e non emancipata e, comunque,  figlia, sorella, fidanzata o moglie, in qualche modo “manutengola”  e  donna-oggetto, subalterna ai ruoli maschili.  Alcune di noi, poi, hanno scontato una seconda condanna. Le donne di destra che hanno deciso di occuparsi – e moltissime di noi lo hanno sempre fatto – di tematiche  femminili prima e di pari opportunità poi e, per questo, hanno seguito – anche dall’interno – l’attività degli organismi istituzionali di parità, (previsti dalla legge in Italia dagli anni Ottanta in poi) e ne hanno fatto una competenza o una “professione intellettuale”, hanno generato grande scompiglio – un po’ anche a destra, molto di più a sinistra – e sopportato le inevitabili conseguenze. Se si aggiunge l’aggravante che alcune donne di destra hanno, persino, scelto di occuparsi di questioni sindacali e di tutele sociali del lavoro femminile, gli schemi e le griglie preconfezionate sono saltate tutte insieme.

Nello sforzo femminile – non sempre sistematico ma sincero – di difenderci all’esterno dalle etichette che gli avversari ci cucivano addosso e – all’interno del nostro ambiente politico – di risolvere qualche contraddizione e torsione, abbiamo – credo – raggiunto almeno l’obiettivo di togliere alla sinistra  l’egemonia del mondo femminile.

Ma non basta mai. Perché la strategia mistificatoria degli stereotipi è sempre in agguato. E se ora la sfida è meno frontale, almeno in apparenza, e si profila  più fluida solo perchè più sottile , la posta in gioco è sempre alta. E così di fronte alla oggettiva ed indubitabile affermazione di donne di destra  in posizioni di vertice e di grande visibilità (in Italia e in altri paesi europei), è subito pronto lo schema di una cultura progressista che apre alle donne in modo massiccio, contrapposta ad una cultura conservatrice che consente solo a pochissime donne di infrangere la barriera invisibile del “soffitto di cristallo” e di occupare posizioni apicali.

E questa interpretazione semplice di una realtà complessa si è consolidata nel tempo e si accanisce con recrudescenza ogni qualvolta  la  cronaca politica, piccola o grande, lo richieda; è successo un tempo – come nota anche “Il Foglio” (11 ottobre 05) – con Golda Meir  (seppure con i distinguo del caso), con la Margaret Thatcher e continua a succedere con Condoleezza Rice e Angela Merkel.

E la donna emergente di destra, viene dipinta  come “maschile, forte e risoluta” (cfr. anche Corriere della Sera del 12 ottobre 2005, intervista a Ségolène Royal), in carriera, con piglio manageriale anche in politica e possibilmente cinica e spietata; stereotipo contrapposto ad altri circolanti sulla donna di destra: femminil-buonista, un pò fragile, talvolta stupidella,  tendenzialmente disimpegnata.  Proviamo ad incrociare  i termini. E se la donna di destra fosse femminile ma anche risoluta? E, poi, ambiziosa ed impegnata ma non carrierista? E se fosse piacente ma anche intelligente?

E, pure. Le calze a rete sono da donna di destra o di sinistra? Diciamo piuttosto che sono scomode e che non donano. Le mamme di destra portano i figli allo zoo e quelle di sinistra li portano al Bioparco, intendendo lo stesso luogo? ma quasi tutte quelle che possono  farlo li portano a Gardland. Le donne di sinistra sono libere e quelle di destra ?; ma libere da chi ? e da che cosa? Le donne di destra fanno tre figli, quelle di sinistra due? ma la media italiana è dell’1,2 figli per coppia.

E potremmo continuare nel contrappunto, farlo diventare serio e non minimalista e scherzoso come abbiamo qui – invece- deciso; perché – in verità – quello della donna di destra è uno degli stereotipi più articolati e più confusi, tanto da rappresentare un esercizio per la sociologia  politica ed un “rompicapo” per gli approcci più semplici e meno sofisticati, quelli dei cosiddetti “luoghi comuni”.

Rispetto a tutto questo ci piace pensare che non ci sia un’antropologia,una tipologia unica della donna di destra e soprattutto che le donne  non siano una categoria, tanto meno con un pensiero unico. Femminile plurale.

Nella varietà di tipologie femminili che  a destra possiamo rappresentare, sfuggendo alle omologazioni ed agli stereotipi, siamo  comunque portatrici di un denominatore comune, quello che fa prevalere l’archetipo sui modelli propinati. Vorremmo interpretare un “non-modello” rispetto agli stereotipi ricorrenti, che hanno danneggiato la nostra immagine e che possono solo nuocere ad i nostri interessi politici e culturali. Un “non-modello” come libertà dagli stereotipi e, che sappia coniugare ciò che solo in apparenza può sembrare in contraddizione; un “modello” rivoluzionario e conservatore (mai reazionario);  tradizionale e riformista; identitario ma  dialogico, capace di rispondere alla modernità ed a bisogni sempre differenti.  E sicuramente non “post-femminista” perché femministe non lo siamo mai state e ne abbiamo respinto le parole d’ordine ed i costumi quando il femminismo era egemone.

Insomma, con buona pace degli amanti degli stereotipi, crediamo che si possano elaborare sintesi nuove o comunque innovative e percorrere tante “terze vie”. Nè veline, nè manager, nè buoniste, nè rampanti, né grasse, né magre…insomma libere (questo, sì) dagli stereotipi e soprattutto noi stesse. Di destra.

Isabella Rauti

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