Quella italiana è una società vulnerabile, senza fiducia né coesione! La “buona ripresa” in corso nel Paese non diventa dinamica di sviluppo duraturo né processo sociale. Insomma, un’economia vitale c’è ma non si vede, o meglio: si tratta di una dinamica evolutiva di e per pochi, frutto e vantaggio di minoranze, che non si diffonde nel Sistema-Paese e non diventa sviluppo di popolo.
Al miglioramento progressivo ha contribuito una ristretta cerchia di aziende e imprese che si è riposizionata sul mercato con modelli moderni ed innovativi. Ma i successi di una minoranza industriale non riescono a filtrare né a trainare l’intero sistema economico e, la maggioranza sociale resta – secondo il 41° Rapporto Censis per il 2007 – nella vulnerabilità, “… più rassegnata che incarognita, in un’inerzia di fondo che forse è la cifra più profonda della nostra attuale società”. E non mancano, nelle settecento pagine del Rapporto, altre affermazioni e definizioni forti; infatti sull’inerzia diffusa, “antropologia senza storia, senza chiamata al futuro”, sembra adagiata la società, una realtà, piattamente detotalizzata che sfugge agli sforzi interpretativi e che diventa “ogni giorno una poltiglia di massa…indifferente a fini e obiettivi di futuro, quindi ripiegata su se stessa”. E ancora, testuale, “… incline pericolosamente verso una progressiva esperienza del peggio… spegne il vitale … mucillagine sociale inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali … coriandoli individualisti che galleggiano… tenuti insieme da un sociale di bassa lega e senza alcuna funzione di coesione da parte delle Istituzioni”, incapaci di riattivare processi. Ma facciamo un salto indietro, anzi due.
Nel 39° Rapporto del Censis (2005) si leggeva che l’energia del sociale si era indebolita; cioè esprimeva una forza più debole che in passato. E se il secolo scorso si era caratterizzato per un’ esplosione del primato sociale e delle questioni sociali, provocando forme sempre più potenti di rappresentanza (dai sindacati all’associazionismo, dal volontariato al privato sociale ) con un’influenza sulle istituzioni e sulla politica; in questo secolo l’energia sociale debole, non trova appartenenze né rappresentanza ed esprime bisogno di rassicurazione. E, nonostante i segnali di tendenziale miglioramento economico che il Rapporto definiva “schegge di vitalità e ripresa”, il sintomo dell’ indebolimento sociale era visibile nel declino del peso esercitato dalle strutture di rappresentanza e dalla scarsa influenza delle forze sociali sulle decisioni politiche.
Il 40° Rapporto del Censis, con il bilancio dell’anno 2006, confermava i segni di vitalità del sistema Paese e, con ottimismo, sosteneva l’ipotesi di uno sviluppo sostenuto e di un “silenzioso boom”, guidato da una minoranza industriale orientata alla globalizzazione. Insomma, una visione positiva e decisamente in controtendenza, rispetto al declino generale ed all’impoverimento denunciati da tutti o, almeno, da molti altri Istituti specifici ed osservatori privilegiati.
L’ottimismo del Censis non crolla neanche nell’indagine sul 2007 ma, forse, si fa più cauto lì dove sostiene che il “boom silenzioso” continua ma, ammette – anzi denuncia – il debito pubblico ed i salari drammaticamente bassi e, lì dove conclude, che la nostra società non decolla perché questa ripresa non fa sviluppo. E, ancora, perché l’inerzia regnante, uccidendo ogni vitalità, nega anche l’idea del futuro come prospettiva, “mentre ci stiamo condannando ad un destino di mediocrità”. Il benessere diffuso e piccoloborghese ha generato una società appagata ma alla deriva, in tutti i campi ed in tutti i settori; l’immagine che emerge è quella di un’Italia frammentata e depressa, in cui i segmenti di vitalità non riescono a fare tessuto né trama connettiva. Una società fatta di minoranze e, in linea generale, una moltitudine aggressiva e disincantata, disillusa dalla politica e dalle Istituzioni, maniaca del benessere ed indebitata. E, nei “nuovi equilibri di mantenimento” che il Rapporto individua rientra anche la revisione strategica dei consumi familiari, caratterizzata da modalità di acquisto più responsabili ed oculate, con l’obiettivo di non abbassare il tenore di vita e persistere nella caccia a beni (vecchi e nuovi) ed a servizi di qualità. “L’appagato imborghesimento” e l’esasperazione della soggettività hanno contribuito alla progressiva frammentazione di tutte le forme di coesione, di solidarietà e di appartenenza collettive; producendo “molecolarità” tenute insieme da una coesione meccanica basata solo sulla soddisfazione di bisogni individuali e sulla confluenza di interessi (appartenenza per bisogno). Nel Rapporto vengono evidenziate degenerazioni antropologiche, tracotanze, prevaricazioni spicciole, litigiosità, aggressività, iperattività patologica; l’effetto è la “dispersione del sé” e delle identità, l’esistenza di “ritagli umani” che non fanno trama sociale né tessuto comunitario ma soltanto forme smorte di aggregazione e connessioni deboli. In questa situazione di “costante inclinazione al peggio”, di cui tutti avvertiamo i singoli episodi ma non cogliamo il senso strutturale ed il meccanismo globale che ne sono a presidio, avverte il Rapporto, vincono le pulsioni frammentanti e non le passioni unificanti; gli argini tracimano e si scatena la corsa e la rincorsa alla presenza: insistente, febbrile, ansiosa; mentre il rito della “vuota presenza consuma le radici stesse dell’esistenza”.
Viviamo in una società affetta da una crisi di ordine simbolico – riflesso di un processo di “de-sublimazione” e progressiva corrosione dei simboli – ed afflitta dalla regressione dell’intero sistema dei valori di riferimento collettivo.
Ai processi di desimbolizzazione e di desublimazione deve seguire una fase che il Rapporto definisce, di “riaffermazione dei fondamenti valoriali e dei carismi mobilitanti”, ed è necessario innescare meccanismi anche lenti ma profondi di evoluzione.
Ma come superare la crisi ? La soluzione, ancora una volta spetterebbe a quelle “minoranze attive”, alle forze reattive sopravvissute nel sottosuolo della nostra società, che hanno conservato “il senso della vita” e che hanno scelto una qualche appartenenza comunitaria e forme di coesione sociale. Sono le nuove minoranze attive – che il Rapporto individua in chi fa ricerca scientifica ed innovazione tecnica; chi studia e lavora all’estero; chi vive in realtà locali ad alta qualità della vita; chi crede nell’esperienza religiosa; che vive l’immigrazione come integrazione; chi ha appartenenza a strutture collettive – che possono sprigionare energie utili per allontanare l’inclinazione al peggio ed invertire la consuetudine regressiva.
Il Censis ritiene che la riposta non possa arrivare dalla politica che “oggi tiene banco”, che appare sfinita e che il Rapporto definisce senza mezzi termini “un’offerta taroccata dalla logica vuota degli schieramenti … destinati a diventare sempre più speculari contrapposizioni di poteri”. E si sottolineano il senso di alterità dei cittadini dalla politica , la partecipazione scarsa e stanca e le difficoltà di pensarsi all’interno di un contesto di interessi e di impegno di tipo collettivo. Su questi aspetti il Rapporto esprime pessimismo e sfiducia, come – anche – sull’attuale dibattito intorno all’interesse nazionale! E mentre in questi giorni, sulle pagine dei maggiori quotidiani rimbalzano le polemiche – scatenate dal reportage comparso sul New York Times a firma di Ian Fisher, corrispondente da Roma del quotidiano americano – sul malessere italiano e sugli Italiani tristi e “senza speranza” , il cui stato d’animo sarebbe stato colto e ben interpretato solo da Beppe Grillo, in noi si rafforza sempre più la convinzione che l’energia migliore delle minoranze non può farsi sistema né sviluppo di popolo se non torna la buona politica, se non si rinnova la politica, se non si trasforma il risentimento anti-politico in sentimento per l’ante –politica, cioè quella pura, il cui unico interesse è il bene comune.
Isabella Rauti