Un’agricoltura rispettosa dell’ecosistema è la premessa per la sovranità alimentare e per quella “libertà alimentare che va riconquistata (…) seme per seme, pianta per pianta, contadino per contadino, comunità per comunità, paese per paese (…)”; così pensa e scrive Vandana Shiva e, abbiamo utilizzato questa sua frase in un articolo – comparso di recente su queste stesse pagine – a proposito del dramma della fame nel mondo e degli effetti di una globalizzazione non governata e senza regole. Ed è su questo personaggio femminile, più genericamente noto che veramente conosciuto, che vogliamo tornare e lo facciamo solo per contribuire a sostenere un ragionamento più articolato e più complesso, svolto dalla nostra Rivista, sui modelli di sviluppo sociale ed economico: quelli possibili, sostenibili, ancorati alle radici dei popoli e dei territori; e quelli imposti, non autoctoni, non autocentranti, disarticolati e distorsivi!
Vandana Shiva è, prima di ogni altra qualifica, una scienziata ed un’ economista; un’ indiana che ha studiato nelle Università inglesi ed americane e si è laureata in Fisica quantistica. Nella sua città natale – Dehra Dun – ha fondato e dirige la Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy; nel 1993 ha vinto il Premio Nobel alternativo “Right livehood award” ed è considerata la “madrina” dell’ecologia sociale. Studiosa dei modelli di sviluppo, critica lo sfruttamento delle risorse naturali ed i ritmi di una globalizzazione selvaggia che sconvolgono le economie rurali locali; come evidenzia nella sua opera più importante, significativamente intitolata Terra madre. Sopravvivere allo sviluppo, in cui sostiene l’importanza vitale del rispetto delle tradizioni locali e degli equilibri naturali. I modelli di “malsviluppo” – così li definisce – creano indebitamento, povertà materiali e culturali; non sono sostenibili né rappresentano forme reali – ma solo presunte – di benessere diffuso, distruggono risorse ambientali, culture tradizionali e modelli sociali e minacciano la sopravvivenza del pianeta.
Vandana Shiva è impegnata anche sul fronte del Movimento Internazionale femminista – ma non è questo l’aspetto che qui si vuole affrontare – e la sua difesa delle donne passa attraverso la riscoperta del principio femminile e l’ analisi del rapporto armonioso ed equilibrato tra figura femminile e natura (terra madre), nonché la consapevolezza dei rischi esistenziali connessi allo sfruttamento commerciale delle risorse naturali (terra, acqua, foreste).
Nel suo, Il bene comune della terra, Vandana Shiva scrive che le donne promuovono culture, economie e politiche incentrate sulla difesa della vita e, che i movimenti per la tutela dei diritti del cibo sono guidati da donne. Forse perché sono proprio loro a pagare il costo esistenziale e sociale più alto dell’ ingresso dei loro paesi nel sistema economico globale!
L’elaborazione del pensiero della Shiva precede – comprende e supera – il Movimento dei no-global e, seppure nelle similitudine e nelle assonanze, ci appare distinto, distinguibile e, forse, se non distante, diverso; più delle forzature no-global, infatti, ci interessano le sue “teorie glocal”ed il suo credo ambientalista, intrecciato ai temi dell’agricoltura sostenibile ed a quelli della biodiversità che – per citare lei stessa – “…racchiude in sé sia il concetto filosofico del valore intrinseco di ogni specie …ed è un miracolo della natura”.
Vandana Shiva respinge le colture ed i cibi biotech, che creano dipendenza e minacciano le biodiversità: “…nei nostri semi ci sono più proteine che nel riso ingegnerizzato…ottenuto impoverendo l’ambiente”; contro il biotech – nuova forma di colonialismo- lancia la sfida della valorizzazione e della tutela della biodiversità. La ricchezza delle differenze naturali contro l’omogeneità delle monocolture e l’uniformità della globalizzazione! La Shiva sfida, così, tutti “i signori dell’agricoltura” e la loro “rivoluzione verde” che impone la logica e la pratica della monocoltura e diffonde specie geneticamente modificate, produttive e resistenti agli attacchi dei nemici naturali delle piante. La “rivoluzione verde” – sostiene Vandana Shiva – ha moltiplicato la quantità di riso e di grano (che marcisce nei container, mentre 850 milioni di persone non hanno da mangiare e, complessivamente, oltre un miliardo di persone nel mondo è a rischio fame e non tanto per la carenza di risorse quanto per la povertà che non consente di acquistare il cibo) ma ha fatto scomparire molti tipi di frutti ed alcuni tipi di olio; l’ordine di confezionare l’olio solo in bottiglie di plastica ha costretto, chi non ha l’attrezzatura e le risorse economiche necessarie, ad espiantare l’olivo. La monocoltura è la scorciatoia per imporre, da parte delle multinazionali, gli Ogm ed il passaggio da un sistema organico alla “agricoltura industriale” ha impoverito gli agricoltori; il sistema industriale che è stato imposto comporta anche costi e consumi ambientali non facilmente quantificabile e non immediatamente evidenti, insomma non si vede ciò che si perde.
Nel 1991 Vandana Shiva ha fondato il movimento Navdanya con lo scopo di proteggere la diversità, in particolare i semi autoctoni in via di estinzione a causa della diffusione delle coltivazioni industriali. Nel gennaio scorso ha lanciato un appello per fermare la possibile seconda rivoluzione verde ed ha presentato il Manifesto per il futuro delle sementi, che significa garantire alle future generazioni, “l’accesso democratico”al cibo. La “battaglia dei semi” ha un significato profondo che va oltre la difesa delle coltivazioni e diventa rivendicazione dei “diritti alla proprietà intellettuale”; una lotta alla volontà delle grandi multinazionali di sostituire i sementi comuni ed autoctoni con semi ibridi, che generano dipendenza delle economie dei Paesi dalle aziende chimiche ed azzerano la produzione tradizionale del cibo, omologando le agricolture. L’introduzione di piante sterili costruite in laboratorio con le biotecnologia, annulla le diversità biologiche e la perdita di tali diversità rende le coltivazioni più deboli e vulnerabili agli attacchi dei parassiti; i semi selezionati e conservati dal lavoro millenario di contadini e di contadine – e di loro proprietà intellettuale – sono sostituiti da semi creati in laboratorio, brevettati e venduti a caro prezzo ai coltivatori che – inoltre – sono costretti a ricomprarli ad ogni semina. Gigantesche multinazionali agro-chimiche ed agro-alimentari continuano a penetrare in India e ad impossessarsi di acri di terreno agricolo, cacciando i contadini dalle loro terre ed impadronendosi del mercato locale.
I raccolti alimentari geneticamente modificati, introdotti anche in India per lo sfruttamento commerciale su vasta scala e, la produzione in laboratorio di semi, minacciano la sicurezza alimentare e smantellano, secondo la Shiva, la tradizionale agricoltura indiana; inoltre, il prezzo dei prodotti alimentari è aumentato ed è cresciuta la fame e proprio in India si concentra un terzo della percentuale della malnutrizione infantile del mondo!
Vandava Shiva critica le politiche di aiuto allo sviluppo, attuate dagli organismi internazionali, indicando vie nuove ed alternative di crescita economica che siano in grado di introdurre forme di sviluppo rispettose delle comunità, dei saperi e delle culture locali e che rivendicano modelli di vita diversi dall’economia globale di mercato e più vicini ad un’economia sociale di mercato che non cede la produzione alimentare ai voleri ed alle logiche di massimizzazione del profitto.
La sfida di fondo è tra produzioni estensive (ogm) e globalizzate da un lato ed equilibrio ecologico e naturale dall’altro; ma c’è di più:altri modi di vivere,di produrre e di possedere.
Non si tratta di frenare il progresso o la tendenza verso la globalizzazione dei mercati, quanto di sviluppare un piano strategico e di prospettiva; un piano che voglia proteggere i diversi sistemi sostenibili di produzione pur tenendo conto delle esigenze che provengono dalla società industriale.
Una visione di sostenibilità ed un modello di sviluppo compatibile con il territorio, in cui si declinino ecologia sociale, biodiversità, esigenze di produzione, libertà alimentare, rispetto delle tradizioni ed identità locali. La “terza via” possibile ed alternativa ai modelli di sviluppo dominanti.