Il Parlamento Europeo è intervenuto, il 24 aprile 2008, con una risoluzione sui diritti delle donne in Iran; in considerazione degli atti di repressione conseguiti alla Campagna-Petizione “ Un milione di firme” per l’uguaglianza giuridica tra uomini e donne in Iran (27 agosto 2006), lanciata dai militanti per i diritti delle donne e dagli attivisti dei movimenti della società civile.
E, in considerazione anche – si legge testualmente – “del ruolo attivo e importante che le donne svolgono nella società iraniana nonostante il persistere di forti disuguaglianze giuridiche …”; la risoluzione invita il Parlamento ed il Governo dell’Iran a modificare la legislazione discriminatoria – che, fra l’altro, esclude le donne dalle più alte cariche dello Stato, nega loro parità di diritti nel matrimonio, nel divorzio, nella custodia dei figli e nell’eredità – e ad adeguare la legislazione agli obblighi internazionali in materia di diritti dell’uomo. Eppure, la repressione nei confronti degli attivisti dei diritti umani continua, è dei primi di febbraio la notizia dell’arresto di Nafiseh Azad, bloccata dagli agenti della sicurezza mentre raccoglieva firme per la Petizione a Darrakeh, e di decine di altre attiviste che, sono state condannate per aver preso parte alla Campagna. La Campagna “ Un milione di firme”, era stata promossa da Shirin Ebadi, la prima donna musulmana a ricevere, nel 2003, il premio Nobel per la pace per il suo impegno a favore dei diritti delle donne; con il ricavato del Premio, la Ebadi ha fondato, a Tehran, il centro per la difesa dei diritti umani che, nel dicembre scorso è stato perquisito dalla polizia e chiuso. La Ebadi ritiene che la consapevolezza delle donne “non nasce da un giorno all’altro ma è un processo lungo. “Le voci delle donne nella società iraniana di oggi – sostiene il Premio Nobel – sono ascoltate molto più di quanto non lo fossero trent’anni fa.” e, i problemi di ineguaglianza tra uomo e donna, trovano la loro causa primaria nel sistema legale iraniano che sancisce tale ineguaglianza, ad esempio “un uomo può sposare molte donne. Può divorziare dalla propria moglie senza chiedere il consenso. Dopo il divorzio è l’uomo che ottiene la custodia dei figli…”, ed altre – le definisce la Ebadi – discriminazioni legali.
L’avvocatessa iraniana, già magistrato sotto la monarchia dello Scià, è convinta che, comunque, si sia rafforzato un movimento femminile e che le attiviste dei diritti delle donne abbiamo ottenuto qualche successo nello loro battaglia tesa a scardinare “un ordine conservatore”, per affermare la parità dei diritti, almeno secondo una strategia dei piccoli passi. Ma se consideriamo che, attualmente, nel Parlamento su 270 membri solo 9 (3,3%) sono donne, mentre al livello locale la percentuale sale fino al 33%, la strada appare ancora piuttosto lunga.
Se si pensa alla condizione femminile in Iran è necessario tracciare una linea tra prima e dopo la rivoluzione khomeinista del 1979 che rovesciò il regime di Reza Pahlevi, senza dimenticare, però, che l’emancipazione femminile risale alla fine dell’Ottocento. Sono passati trent’anni dalla Rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini , che ha imposto il velo alle donne (vietato nel 1937) ed altre norme comportamentali di “moralità pubblica” da osservare. La “polizia morale” controlla il rispetto delle norme e le eventuali “Mal velate” – così si dice – sul lavoro e nei luoghi pubblici commettono un reato.
Attualmente risulta fortemente aumentato il tasso di scolarizzazione e sono molte le scrittrici, le pittrici, le fotografe e le giornaliste affermate come molte sono le riviste femminili, anche quelle politiche e giuridiche. Tuttavia alcuni percorsi curricolari ed alcune lauree e carriere scientifiche sono precluse; le donne iraniane sono escluse da alcuni settori come l’ingegneria e la giurisprudenza. Non hanno accesso a 91 specifici settori di studi di livello universitario, a 55 indirizzi tecnologici ed a 7 delle scienze naturali (Fonte ONU).
Ci sono due anime del movimento femminista iraniano , una più di liberazione delle donna islamica, che si richiama a modelli occidentali e li vorrebbe riprendere in toto ed assumere acriticamente; un’altra che non si limita ad importare modelli di femminismo occidentale ma tende ad una nuova interpretazione della propria tradizione religiosa e culturale e che vorrebbe operare “intesi nuove”e rispettose del passato e delle proprie radici. Insomma, un’interpretazione del corano anche secondo un punta di vista di genere, per partecipare alla vita religiosa, sociale e politica del proprio paese in modo coerente ma consapevole.
E, l’abbiamo scritto proprio su queste pagine, nella convinzione che le donne siano, in tutti i processi di trasformazione, il motore fondamentale; e, sono soprattutto le donne che si trovano a vivere la transizione da una tradizione integrale, forte e totalizzante ad una modernità, spesso confusa, comunque attraente ma difficile da assumere ed interiorizzare.
Si ha l’impressione che queste donne, in modo molto sapiente e in modo anche essenziale e rigoroso, stiano cercando una faticosa terza via; una sintesi nuova tra la condizione patriarcale e la modernità. Ma quale modernità? Come scrive Fatema Mernissi: “ La nostra è una modernità mutilata, priva di grandi progressi democratici… quanto di realizzazioni culturali e scientifiche” ma aggiunge anche che le donne, gettate nel silenzio per secoli, hanno cominciato la loro marcia verso la libertà e non hanno nulla da perdere tranne che la segregazione, la reclusione e la paura. “Le donne arabe” – sostiene, ancora, l’Autrice marocchina, “non hanno paura della modernità”, che, invece, fa paura a molti ed anche a molti uomini; “non hanno paura della modernità”, anche perché la modernità è una opportunità reale per costruire una alternativa a quel tipo di tradizioni e (…) silenzi che, altrimenti restano destino. Allora, le donne musulmane stanno sfidando forme secolari di misoginia e di dispotismo ma, soprattutto, si stanno impegnando – in talune circostante anche combattendo – per cambiare il loro privato, così come per cambiare i Codici Civili e, più di tutto quel diritto non scritto ma consuetudinario, che è in contraddizione con le Dichiarazioni universali dei diritti umani e dei diritti delle donne. Per queste donne, l’istruzione ed il lavoro extradomestico retribuito, sono elementi di una modernità che le attrae, non le spaventa ma, sicuramente, scatena altre paure perchè questa modernità richiede di stravolgere una omogeneità secolare, un perpetuarsi “securizzante” ed un modello sociale in sé stabile.
Crediamo che della modernità mostrata e vissuta da queste donne, che tentano di conciliare la difesa dei costumi musulmani con l’emancipazione individuale, non sconvolga e spaventi tanto, l’accesso alla conoscenza ed all’istruzione, quanto la loro consapevolezza e la voglia di essere cittadine. Anche questo è un punto. E questo punto pone un problema di fondo: fra le donne e lo Stato. Una questione che una volta sollevata costringe a rinegoziare un contratto ed un insieme – anzi un sistema – di rapporti tra le cittadine e le Istituzioni. Allora, in questo senso, la modernità – che chiama in gioco anche e soprattutto l’identità di genere – significa la comparsa e l’affermazione – quindi l’esistenza – di donne cittadine e l’esercizio della cittadinanza. Tale esercizio, resosi consapevole e reale, modifica la natura del rapporto con lo Stato e, necessariamente, modifica anche la natura dei rapporti privati; e, ancora, spezza e rovescia l’equilibrio di tutte quelle società che sanciscono e legittimano forme di ineguaglianza e prassi impari.
Il loro rapporto con la modernità non può essere rappresentato e risolto come lotta tra tradizione e modernità; c’è anche un’altra componente, che soprattutto le donne avvertono, il confronto tra tradizione e imitazione dell’alterità, ed in questo consiste lo strappo identitario tra una tradizione che rappresenta il “qui” ed una modernità che rappresenta l’ “adesso”. Se non si riesce a fare sintesi nuove, lo strappo crea contraddizioni e schizofrenie. Il fanatismo religioso, in questo senso, può essere una lettura degli “strappi” che non diventano sintesi e che producono disfunzioni e patologie.
Gli “strappi identitari” solo nella prospettiva di una identità non statica; quindi non l’identità radice, immobile, fissa e, come si diceva prima giustamente, monolitica, ma l’ idea di una identità-relazione cioè una identità individuale e collettiva che si radica anche in contesti diversi e che con i contesti diversi si mette in relazione. L’identità che si modifica nel tempo, che si muove e che è fluida, si rapporta con il presente ma si richiama e resta in continuità con la tradizione, intesa come insieme di valori e patrimonio condiviso. Un’identità che sappia declinare il suo retaggio verticale (storia, tradizioni, etc.) ma anche quello orizzontale di contemporaneità. Le donne sapranno farlo.
Isabella Rauti