PADRI & FIGLI
La sua immagine pubblica? Molto diversa da quella privata di padre: perché, talvolta, il gioco degli stereotipi è il più semplice da praticare
Il ticchettio dei tasti della vecchia Olivetti risuona in tutta la casa e sono solo le cinque del mattino.
Se chiudo gli occhi, è questa la prima immagine che ricordo di mio padre, Pino Rauti. Avrò avuto cinque anni e lui, all’epoca giornalista de “Il Tempo”, si occupava delle cronache della Provincia. Spesso, per farsi perdonare le prolungate assenze, mi portava una bambola caratteristica di una regione o di un paese straniero che aveva visitato. Finii per averne una collezione. E poi ricordo ancora i giorni spensierati delle vacanze: quelli al mare, trascorsi a Cattolica, dove papà ci raggiungeva, di tanto in tanto, specie nel fine settimana, e quelli in montagna, a Glorenza, luogo che ci ha visti protagonisti di interminabili passeggiate. Io approfittavo di quei momenti per stargli vicino, sempre vicino, tanto che, alla fine, lui mi attribuì il soprannome di “francobollo”, perché gli stavo, letteralmente appiccicata.
I viaggi nei ricordi non sono sempre facili, perché, insieme alla nostalgia, che sembra rendere tutto più dolce e sopportabile, fanno riaffiorare anche la memoria di eventi che ci hanno procurato piccole e grandi ferite: così, in qualche modo, il ricordo riapre quelle ferite, che, forse, non si sono mai rimarginate.
E, a volte, mi chiedo, come potrebbero. Proprio in questi giorni al mio ottantenne papà è stata comunicata la richiesta di rinvio a giudizio per la strage di Brescia, 1974. Sono passati “solo” trentaquattro anni. E pur considerando la totale fiducia che mio padre ha sempre nutrito nei confronti delle istituzioni, non posso non pensare ad un preciso intento persecutorio che si muove dietro queste accuse, prive di elementi probanti.
“Non c’è mai una penna vicina al telefono”, “ma dove vai con quel trabiccolo?”, “non ti sciupare”, “perché non ti compri un capino elegante?”. Queste erano le frasi che, con mia madre e mia sorella Alessandra, gli sentivamo dire più spesso. Nascondono, ancora oggi, un misto di tenerezza ed apprensione per tutte noi e, di sicuro, anche l’estrema cura che aveva per l’ordine: la mancanza di una penna vicina al telefono era, davvero, motivo di vivaci discussioni. Ma un uomo solo, contro tre donne, poteva poco. Era sommerso dall’universo femminile. Subiva le liti tra me e mia sorella, le discussioni tra noi figlie e mia madre. E lui, tutte le volte, provava a mediare, a ricucire, a risolvere piccoli e grandi conflitti. Ecco, a distanza di anni, nonostante la mia famiglia avesse certamente una gestione matriarcale, riconosco a mio padre la capacità di essere stato un grande mediatore familiare.
Aveva autorevolezza, ma non esercitava l’autorità maschile, tipica di quei tempi. Credo che ad essere “atipica”, comunque, fosse la mia famiglia nel suo complesso. La politica militante è stata, infatti, per noi, un tratto tipico, una sorta di collante. I miei genitori si erano conosciuti nella federazione romana del Movimento sociale italiano. Mia madre, all’epoca, era fiduciaria di istituto per il Partito e mio padre un esponente nazionale giovanile. Tutte le loro scelte successive, sia di vita privata sia professionali, sono state influenzate da questo credo profondo. Anche lo stare a casa di mia madre è da intendersi come una scelta di “militanza”: perché mio padre potesse svolgere al meglio la sua attività politica era necessario che la gestione familiare fosse nelle sue mani. Questo non le impediva, tra l’altro, di partecipare attivamente a tutte le attività di partito e di fare la militante come si definisce tutt’ora.
Avevo nove anni quando entrai per la prima volta alla sezione Balduina del Movimento sociale. Mi ci portò mia sorella Alessandra che allora aveva quattordici anni. L’unica cosa che potevo fare, a quell’età, erano le pulizie della Sezione ed arrotolare i manifesti. Ma da allora in poi è stato un impegno ininterrotto ed ovviamente crescente. E mio padre, che ci ha sempre lasciate libere di fare le nostre scelte, ha avuto, da allora, come principale preoccupazione quella della mia formazione politica e culturale. Ancora oggi mi ritaglia articoli di giornale o mi segnala convegni che ritiene possano essermi utili. Un po’ come, quando ero piccola, e la sera mi sedeva accanto e mi raccontava i suoi “fatterelli”: erano storie della guerra e degli anni immediatamente successivi, in cui i tratti storici si intrecciavano a quelli della fantasia. Un giorno, tornando a casa dopo scuola, felice perché, insperatamente, avevo avuto un buon voto al compito di matematica, trovai delle persone che non conoscevo e che, mi disse mia madre, avrebbero portato via papà. Alla mia richiesta di spiegazioni, rispose con educazione uno di quegli uomini, che mi rassicurò dicendomi che papà sarebbe tornato presto. Erano agenti in borghese, venuti per arrestare mio padre; la detenzione durò poco tempo, ma per essere completamento prosciolto dovemmo aspettare molti anni!
E fu così che, qualche giorno dopo, quando la maestra, per un compito in classe, ci chiese di descrivere un evento particolare, io raccontai dell’arresto di mio padre. Di come la casa, da quel giorno si fosse riempita di piccoli animali che fino a quel momento i miei genitori ci avevano impedito di avere, del motorino che mia sorella avrebbe comprato, e di mia madre che ci tranquillizzava, quotidianamente, sul fatto che il papà era innocente e che dovevamo avere fiducia. Conclusi il compito scrivendo che, nonostante tutto quello che era accaduto, se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio cognome, avrei risposto sempre più fieramente “Rauti”. Quel tema venne pubblicato, nel 1972, sul “Secolo d’Italia”, con richiamo in prima pagina. Ricordo il mio rammarico per la cornicetta da me disegnata attorno al titolo del compito e che non era per niente carina.
Come dicevo, il ricordo può addolcire certi eventi, ma di certo non cancella il dolore al quale con grande dignità la mia famiglia ha sempre reagito. Le scritte infamanti, che c’erano sempre state, cominciarono ad invadere ogni spazio della nostra vita, dal portone al pianerottolo di casa, ai muri della scuola. Per non dire dei problemi avuti con gli scout, con i genitori di alcune mie amiche, dei freni tagliati al motorino di mia sorella. Episodi che, invece di indebolire hanno rafforzato la mia famiglia, per merito, ne sono convinta, anche di mia madre che, negli anni, è stata nostro riferimento costante.
A partire dalle scuole medie, fui iscritta ad una scuola privata perché la pubblica, allora, con il mio cognome, poteva essere troppo pericolosa. Il tempo della politica sarebbe arrivato dopo. A tredici anni e mezzo, mi iscrissi al Fronte della gioventù. Mio padre, come genitore, era preoccupato per quella mia scelta, ma come politico certamente non poteva impedirmela. La sua unica raccomandazione era di non rinunciare agli impegni ed intrattenimenti tipici dei ragazzi della mia età. Cercai di seguire il suo consiglio. Ma la politica continuava ad esercitare il suo fascino preferenziale.
Qualche aneddoto familiare e politico? Accompagnavo spessissimo mio padre in giri di Partito; andammo ad un convegno a Civitavecchia (erano i primi anni ’80),e mi ero vestita, completamente, di rosa. Inaspettatamente, mio padre mi chiese se mi ero vestita così per il “bel Tony”, un dirigente di allora. Fui colta totalmente di sorpresa da quella domanda che fu rivelatoria, e dovetti riconoscere che aveva ragione. Mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stessa. La storia con il “bel Tony” cominciò qualche tempo dopo e lui lo venne a sapere da un “pettegolezzo”. In un incontro di partito, papà lo avvicinò dicendogli, più o meno “So che mia figlia ti guarda; ma sappi, è troppo piccola per te, ha un brutto carattere, è polemica, discute su tutto è impegnativa”. Penso che lo abbia scoraggiato.
Quando si trattò del fidanzamento con Gianni (che poi è diventato mio marito), mi impegnai molto a tenere la cosa segreta. Ma come era inevitabile che fosse, lui venne a saperlo. Del resto, la figlia di Rauti fidanzata con giovane dirigente di spicco, forniva materiale per più di una chiacchiera. Mio padre mi disse che avrebbe preferito saperlo da me, “non per avere la mia approvazione, ma per stare tranquilla con la tua coscienza”. Aggiunse anche che quell’unione poteva essere “perfetta e micidiale”, perché lui non aveva mai conosciuto due persone più pignole e cocciute di noi. Oggi, a distanza di tanti anni, posso affermare che quella frase è stata profetica.
Era il 1995, quando a Fiuggi si celebrava l’ultimo congresso del Movimento Sociale e si apriva il primo di Alleanza Nazionale. Mio padre, come tutti sanno, andò via, con altri, da Fiuggi, per fondare in seguito la Fiamma Tricolore. Quando io decisi di seguirlo, mi raccomandò di scegliere liberamente, di non sentirmi obbligata nei suoi confronti. Mi fece una raccomandazione molto paterna: “Io e tua madre siamo stati sempre insieme”. Laddove quel “sempre” stava ad indicare anche i periodi più bui, quando, forse, per mia madre sarebbe stato più semplice tirare i remi in barca. “Metti la famiglia al primo posto”, continuava a dirmi, ma, ciononostante, non ha mai commentato le mie scelte, né allora né oggi, non ha mai espresso giudizi sulle scelte politiche di mio marito, pur non condividendole, né fatto commenti. Di tutto questo, oggi gliene sono profondamente grata.
Gratitudine che nutro, in particolare, per l’aiuto avuto durante i primi anni di vita di mio figlio, quando approfittando delle sue abitudini mattiniere, affidavo al nonno il piccolo e mi concedevo qualche ora di sonno. Oggi, seppure in modi differenti, nonno e nipote si adorano e vivono una grande complicità, grazie soprattutto al primo che concede al secondo cose impensabili per noi figlie, da piccole. Un esempio per tutti: gli consentiva di sedersi sulla sua scrivania, spostando le carte che c’erano sopra. Conoscendo la sua ossessione per l’ordine, direi che questa è una delle più grandi concessioni che abbia fatto a mio figlio.
In politica sono sempre stata al suo fianco dagli anni Settanta ai primi anni del 2000: questo non significa che con mio padre non ci siano mai state discussioni, anzi. Le nostre querelle erano all’ordine del giorno, in merito all’organizzazione, alla scelta dei collaboratori, alla modalità di affrontare certi problemi e, ovviamente, di risolverli. La differenza generazionale si traduceva, per forza, in una differenza di linguaggi e di visioni, ma non di sentire. Quello ci ha sempre accomunato e ci accomuna ancora.
Anche sul piano professionale ho avuto la fortuna di agire sempre in assoluta libertà. Anche se, talvolta, devo confessarlo, avrei voluto che lui mi avesse preparato, in qualche modo, al mondo del lavoro. Invece non ha mai insegnato a me o a mia sorella “come” si può fare carriera o come si sgomita. Ha sempre creduto in una società meritocratica. “Fai quello che ti piace, quello in cui credi ed il tuo lavoro verrà riconosciuto” erano le sue uniche raccomandazioni.
Di certo, non posso dire che il mio cognome non mi abbia condizionato. Prima del mio arrivo spesso la gente ha già un’idea di me, senza avermi mai vista o conosciuta. Sono come preceduta dal pre-giudizio. E questo, di sicuro, non mi ha mai agevolato. E proprio in virtù di ciò, mio padre mi ha sempre spronato a fare bene, a fare meglio, e se possibile, a lavorare fino all’eccesso.
Una volta con estrema lucidità mi disse “Non capisco perchè una come te non abbia fatto il concorso in magistratura” – “Perché sono laureata in lettere”, risposi. Questo per dire quanto fosse profonda la cifra della sua discrezione nei nostri confronti: nessun condizionamento di sistema. Una cosa alla quale teneva profondamente e che ripeteva spesso era che se avessi deciso di fare politica, non avrei dovuto fare della politica un lavoro. Lui stesso, era stato avvocato prima e giornalista poi.
Dunque dovevo trovarmi un lavoro, così da essere libera di non dipendere dalla politica o da un marito. Così è stato: prima insegnante, poi giornalista, contrattista di ricerca e poi professore a contratto e, l’impegno negli Organismi di pari opportunità ed ora al Ministero del Lavoro come Consigliera nazionale di Parità, che attualmente, assorbe la maggior parte del mio tempo.
E credo che questa pulsione verso la giustizia sociale e la passione per i temi della parità tra i generi siano, in qualche misura, una eredità lasciatemi da mio padre, sfatando, così, anche in questo, un altro pregiudizio semplicistico su di lui: che un uomo del Sud, di destra, per giunta, non potesse avere un’attenzione preferenziale per la condizione sociale del mondo femminile. E invece, il rispetto della donna e la sua indipendenza sono stati valori che mio padre mi ha sempre trasmesso. Anche quando nel 2004 ho aderito ad Alleanza Nazionale, lui non ha commentato in alcun modo questa mia decisione. Non ne era particolarmente entusiasta, ma ha detto che mi capiva. Credo, infatti, che l’unica cosa che, davvero, gli avrebbe procurato un dispiacere sarebbe stato se il mio sentire fosse stato diverso dal suo. E quello, come dicevo prima, non è mai cambiato. Passo diverso, sì, ma medesimo sentire, sempre.
Ci sono giorni in cui vorrei ancora dire di essere il suo francobollo. E sebbene il nostro rapporto sia necessariamente cambiato nel tempo, rimane sempre profondo, quasi viscerale, come quando da piccola mi ammalavo perché, come scoprì dopo molto girovagare, un vecchio pediatra, soffrivo per la lontananza di mio padre. Così, ancora oggi, lui continua a seguire la mia formazione, nonostante qualche acciacco di salute ed io, in cambio, mi offro per piccole commissioni che, però, lui tende sistematicamente a rifiutare. È un padre tenero ed accogliente, senza essere troppo protettivo. Anzi, come ho più volte sottolineato, mi ha lasciata libera, fin troppo, di scegliere e di sbagliare.
La politica per lui è stata ed è ancora una grande passione. Il suo atteggiamento è di quelli che “se anche mi dicessero che morirò domani, stanotte pianterei un albero nel mio giardino”. Si accinge, tra l’altro, ad opere che non vedrà crescere, ma questo non frena in alcun modo la sua voglia di fare e questo vale per la politica, ma non solo. Mi piace utilizzare una recente affermazione di Marcello Veneziani, che vedrei bene applicata per definire la generazione politica di mio padre, quella dell’ante politica. Una generazione di politici, cioè, che hanno vissuto, coerentemente, l’idea di politica come passione, come bene comune ed interesse nazionale. Forse è anche per questo che oggi più di prima, gli è riconosciuta una certa autorevolezza, anche dagli avversari.
Perché, per lui, la politica è socialità, idealità, prima di essere ideologia e progettualità. E forse oggi la debolezza di una certa politica sta nell’incapacità di trovare risposte adeguate ai problemi nuovi ed ai nuovi bisogni, elaborando.
Pino Rauti è mio padre, ma per molte generazioni della destra italiana è stato un riferimento politico ed intellettuale; invecchiare è uno degli eventi più naturali della vita, ma anche uno di quelli che si riescono ad accettare di meno, e questo vale sia come figlia sia come “militante”. So bene che la sua immagine pubblica, per forza di cose, appaia profondamente diversa da quella vera e privata; del resto, il gioco degli stereotipi è il più semplice da praticare: repubblichino, fascista… sembravano dire tutto, invece riassumevano e non abbastanza, perché con questi schemi molto della sua persona e personalità resta escluso. Ma i pregiudizi, si sa, sono difficili da estirpare: sarebbe come abbandonare delle comode e rassicuranti certezze per impegnarsi nella fatica del conoscere e dell’andare in profondità.
Cosa vorrei dire a mio padre oggi? Molte cose, e gliele dirò! Intanto, per piacere, comprati una macchina nuova!
* Dice di sé:
Isabella Rauti. Laureata in Lettere e in Pedagogia, ha iniziato la sua carriera come insegnante nelle scuole superiori. Giornalista professionista e docente universitario a contratto, non ha mai abbandonato l’attività politica che la vede impegnata in prima fila sin dalla gioventù. Oggi si dedica principalmente ad attività associative ed istituzionali nel campo della parità di genere e delle pari opportunità. Ambito che la vede protagonista come autrice di libri, tra cui “Istituzioni politiche e rappresentanza femminile”, Editoriale Pantheon, 2004 e “La presenza delle donne nelle Istituzioni politiche: un deficit di democrazia”, Nuove Idee, 2005.
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