Su “Economy” di questi giorni compaiono i primi risultati dello studio “Do women pay more for credit?Evidence from Italy”condotto dall’economista Alberto Alesina – in collaborazione con i colleghi Francesca Lotti e Paolo Emilio Mistrulli – sul credito d’impresa nel triennio 2004-2006.
Tanti i dati e le tendenze contenute nello studio ed anticipate dall’articolo; tra tutte a noi interessa una sollecitazione, in particolare: in Italia “i tassi d’interesse sui fidi bancari, per le imprenditrici sono più alti dello 0,3%”, con un’evidente disparità di trattamento tra le aziende guidate da uomini e quelle con a capo una donna. Insomma una discriminazione indiretta, che il sistema bancario nega ma che nei fatti e nei dati – invece – troverebbe riscontri. Tale differenziale – sostiene lo studio – lievita ed arriva allo 0,6% se l’imprenditrice o l’aspirante imprenditrice si avvale di una garante donna. E le imprenditrici italiane lo sanno bene!
Ma le imprenditrici italiane sanno bene anche , e lo sa il Paese, che nonostante tutto, il loro modo di fare e di essere impresa e microimpresa, continua a confermarsi come trend positivo. E non solo. Il peso delle aziende guidate da donne, nel panorama dell’imprenditoria nazionale, dimostra l’importanza dell’impresa femminile e la sua capacità di condizionare le dinamiche socio-economiche del nostro Paese e – in caso – sottolinea la necessità di irrobustire un piano di rilancio degli interventi pubblici destinati a sostenere e promuovere questo “genere” di imprenditoria o questa imprenditoria, “di genere”.
In Italia, alla fine del 2007, le imprese femminili attive erano 1.243.192 su 5,2 milioni di imprese; poco più del 24% di tutto il sistema d’impresa (Fonte: Osservatorio Imprenditoria femminile Unioncamere-Infocamere). Dallo stesso Osservatorio emerge, che le imprese gestite da donne sono aumentate, tra il 2003 ed il 2007 , del 5,4% (il 2,25% in più rispetto alla crescita del totale delle imprese, pari al 3,59%) , a testimoniare la dinamicità dell’attività imprenditoriale femminile. Inoltre, aumentano le imprenditrici che si “avventurano” in settori tradizionalmente maschili; e si registrano variazioni percentuali interessanti in settori come, ad esempio, la produzione di energia (+59,39%), nelle costruzioni (+34,50%) e nella sanità (+34,53%). Infine, secondo l’Osservatorio, nelle variazioni che si sono registrate tra il 2003 ed il 2007, si impone la tendenza ad una maggiore assunzione di responsabilità da parte del mondo imprenditoriale femminile; l’incremento delle donne nei ruoli decisionali delle imprese è, complessivamente, pari a + 2,75%.
Ed è bene ricordare che la legge n. 215 del 1992, contenente “Azioni positive per l’imprenditoria femminile”, non fu un approdo facile e sempre difficile è stata la sua applicazione; carenza di informazione, difetti di assistenza nella progettazione e di tutoraggio nella fase creazione e di avvio della nuova impresa. Ma anche difficoltà di accesso, per le donne imprenditrici, al sistema creditizio, dovuta – allora e sempre – alla resistenza di alcuni pregiudizi del sistema bancario italiano, nonché le problematiche legate allo scarto esistente tra gli obiettivi della legge da un lato e le risorse finanziarie e la strumentazione amministrativa, dall’altro.
Semplificando, possiamo dire che – nei primi anni di applicazione della Legge – gli aspetti burocratico-procedurali hanno prevalso fino a quasi mortificare gli obiettivi di una legge che nasceva come superamento delle discriminazioni, basate sul genere, nell’accesso alle risorse finanziarie e, come volontà di promozione di nuove energie nel tessuto imprenditoriale del nostro sistema economico.
Il sostegno pubblico all’impresa femminile ha rappresentato un intervento fortemente innovativo; la promozioni di imprese femminili non è nata come tutela assistenziale ma come riconoscimento di creatività e valorizzazione di nuove soggettività. Una sorta di investimento su un fattore produttivo, su una risorsa – insomma – e non protezione di soggetti deboli, magari esclusi o marginali rispetto al mercato del lavoro. Insomma, l’imprenditoria femminile non è stata considerata come un’ area di economia assistita con particolari interventi di favore – e la storia, anche personale, di molte imprenditrici lo dimostra – ma come una risposta alla richiesta di rimozione delle discriminazioni e degli ostacoli che impedivano lo sviluppo dell’impresa femminile, nonché l’individuazione degli strumenti utili a favorire l’emersione delle imprese sommerse.
Dal 1992 ad oggi l’imprenditoria femminile è cresciuta costantemente e, dalla legge si è passati alle strategie, elaborate anche di fronte alle accelerazioni della post-modernità ed alle sfide lanciate dalla globalizzazione dell’economia e dei mercati e dalla concorrenza mondiale.
La crescita del numero delle imprenditrici – anche di quelle che non ricorrono ai Fondi per le aziende femminili ma a quelli generici – dimostra che si sta radicando nel mondo del lavoro la tendenza a tipologie di autoimpiego, con l’assunzione di responsabilità individuali e la disponibilità a rischiare per cercare nuove opportunità.
E’ di evidenza statistica che, nel corso degli ultimi anni, la linea di tendenza che si è registrata è quella di una crescita esponenziale delle iniziative imprenditoriali femminili; grazie – ma non solo – anche agli stanziamenti specifici ed alle risorse destinate allo sviluppo di tale imprenditoria; nonché come reazione positiva alla difficoltà di trovare una collocazione nel mercato del lavoro e come espressione della capacità e disponibilità delle donne a mettersi in gioco in prima persona. O ad inventarsi un lavoro che non c’è ! Soprattutto nel Mezzogiorno del Paese.
Un settore lavorativo, quindi, che continua a registrare una positiva dinamicità, che produce occupazione (tendenzialmente femminile), favorendo l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro indipendente ed autonomo e, che cozza con le “impari opportunità”, come dimostra la criticità che continua a circondare l’accesso delle donne al mondo imprenditoriale.
Infatti, l’accesso al ruolo imprenditoriale per le donne resta difficile, non solo per i “tassi d’interesse differenziali”, ma anche perché si profila più lungo e più lento rispetto agli uomini; e questo, nonostante che dalle ricerche risulti che le donne sono molto dotate delle caratteristiche che concorrono a definire il profilo imprenditoriale, quali ad esempio la capacità organizzativa e di relazioni umane, la tenacia e la determinazione nel perseguimento di scopi ed obiettivi, la capacità di adattamento e flessibilità.
La recente nomina di Emma Marcegaglia e, poi, di Federica Guidi e , nei giorni scorsi, di altre figure femminili in posizioni apicali della struttura , rappresentano un indubbio segno inverso e positivo e, possono essere letti ed interpretati come garanzia e presidio di quelle “opportune parità” di cui anche il mondo dell’impresa ha bisogno.
Favorire l’imprenditorialità femminile significa fondare le premesse per consentire alle donne di interpretare e vivere da protagoniste i processi economici; incoraggiare la creatività, che è alla base delle imprese, vuol dire costruire nuove opportunità di lavoro e di realizzazione professionale. E di questo ne beneficerebbe non solo il sistema impresa in generale ma il Paese tutto.
Isabella Rauti