Percorso:

Area – Le donne nei luoghi della decisione

Ci siamo appena lasciati alle spalle una campagna elettorale accompagnata e  segnata dalle polemiche e dai gossip e gli esiti delle Elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, caratterizzati da una certa disaffezione al voto; forse perché, più che di programmi abbiamo sentito maldicenze ed abbiamo visto abbassarsi il livello del confronto.
Sin dall’inizio si è discusso sulle scelte delle candidature femminili ed un nodo importante, come la presenza delle donne nelle competizioni elettorali e nelle Istituzioni è stato ridotto banalmente alla questio “veline si \veline no” , snaturando così ogni ragionamento di natura più politica. Ma partiamo dai dati. Nel 1999,  la percentuale delle donne elette dall’Italia al Parlamento europeo era poco più del 10%; nel 2004 è salita al 21%, segnando un significativo  raddoppio delle elette dovuto all’introduzione del principio, nella composizione delle liste elettorali,   che “nessun genere poteva essere rappresentato in misura inferiore al 30%”  (L. n. 90 dell’8 aprile 2004).

Con le elezioni di giugno 2009, le donne italiane elette al Parlamento Europeo sono 16 su 72 ( 9 per il PDL;5 per il PD, 1 per la Lega, 1 per l’IDV) pari al 22%. Il dato europeo appena raggiunto ci fa risalire nella classifica  della rappresentanza femminile che ci vedeva collocati all’ultimo posto fra i Paesi europei. Ma questo non risolve la questione della rappresentanza femminile nelle Istituzioni politiche, nazionali e locali, questione che – nel nostro Paese –  viene da lontano. E che proviamo a riassumere cos’, quasi come una metafora: in Italia le donne sono oltre la metà degli aventi diritto al voto (il 52%), ma non sono mai riuscite a superare la quota di un quarto delle persone elette!

Mai, da quando il 1° febbraio 1945, un decreto luogotenenziale riconosceva alle donne il diritto di voto e di eleggibilità. Il voto femminile entrava in vigore nel 1946, ed il 2 giugno 12.998.131 cittadine italiane votavano, per la prima volta, per l’Assemblea Costituente e per il Referendum istituzionale. Nelle elezioni politiche del “46 furono molte le candidature femminili e le elette, nella prima legislatura, furono il 6,3% del Parlamento nazionale;il 7,7% nel 1948; nel corso delle legislature successive, la percentuale delle elette al Parlamento non ha mai avuto un andamento lineare di sviluppo , rimanendo intorno ad una media altalenante tra il  7%  ed il  9% (con i minimi storici del 2,8% nel 1963 e nel 1968), fino alla XI legislatura e salendo  alla  quota del 15% nella XII legislatura, a seguito dell’effetto della legge del 1993, che inserì l’alternanza di uomini e donne nella quota del 25% da eleggere con il sistema proporzionale.  Nelle legislazioni seguenti (dalla XIII alla XV) il numero delle elette è addirittura diminuito, superando complessivamente di poco l’11% ,  ed è solo nel 2003 – con la modifica dell’articolo 51 della Costituzione  – che la rappresentanza delle donne in Parlamento riprende a crescere, fino ad arrivare alla legislatura in corso, in cui  le donne sono il  21,3% alla Camera e il 18% al Senato.

Ma la questione della rappresentanza, al di la dei numeri, è diventata ed è di “rango costituzionale” perché la citata modifica dell’Art.51 ha costituito un’innovazione di straordinario rilievo che ha introdotto nelle Istituzioni la promozione e la realizzazione di condizioni di pari opportunità fra uomini e donne con “appositi provvedimenti”. La disciplina costituzionale consente,insomma, che le donne siano destinatarie di “azioni positive” e “discipline” in loro favore, anche in via legislativa, per correggere gli squilibri.

I dati attuali,  i più alti raggiunti dall’Italia nelle Legislature parlamentari, collocano  comunque il nostro Paese – al livello internazionale – al 52° posto su 188 nazioni al pari della Cina (21,3% di donne nel Parlamento)  e dietro a Paesi come l’Argentina o Cuba (sopra il 40%) ma anche come , Spagna,  Germania e Nuova Zelanda con oltre il 30%  e la Svizzera e il Portogallo con il 28%. Primeggia, per “minor divario tra donne e uomini”, la Svezia, seguita da Finlandia e Norvegia, mentre, dopo l’Italia vi sono  anche Paesi come Bolivia, Botswana, Bielorussia ma nessun Paese europeo!

Ma – e va detto – la situazione a livello europeo non è  così positiva come appare. E gli organismi europei sottolineano che, nonostante  le dichiarazioni e le raccomandazioni politiche, i programmi d’azione adottati in tutto il mondo e specifiche normative introdotte a livello nazionale sulla uguaglianza di genere e la non discriminazione, ancora persistano in Europa e in tutto il mondo ineguaglianze e discriminazioni, nonchè la sottorappresentanza delle donne nella politica e nei luoghi della decisione economica. Il tema della rappresentanza, infatti, è affrontato anche dalla Road Map, la tabella di marcia per la parità tra donne e uomini  per gli anni 2006-2010, in cui si delinea il percorso verso la parità e  si dedica una delle sei aree di intervento proprio alla promozione delle pari opportunità delle donne e degli uomini al processo decisionale.  Ed è per monitorare ed intervenire sulla sottorappresentanza femminile e sul consequenziale deficit democratico e, più in generale, sul divario tra donne e uomini che l’Unione Europea ha voluto istituire, a Vilnius, l’Istituto Europeo per l’uguaglianza di genere; organismo  che dovrebbe diventare un osservatorio privilegiato sulle questioni di genere sia sotto il profilo quantitativo  che  qualitativo, nonché luogo di promozione delle partecipazione femminile ai processi decisionali, ma anche “decisore” nelle politiche per ridurre la disparità retributiva e salariale tra uomo e donna a parità di lavoro svolto ed  in quelle di sostegno alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, nodo cruciale da sciogliere per il raggiungimento di una parità sostanziale  ed effettiva.

Ma torniamo al punto. Esiste al livello globale, internazionale e nazionale, un problema di parità effettiva e di rappresentanza politica femminile nelle Istituzioni; e nel nostro Paese, il  “caso italiano” !,  una delle ragioni e delle spiegazioni è il ritardo storico dell’ottenimento del diritto di voto; insieme ad una “corresponsabilità” dei Partiti e dei loro Statuti e Regolamenti interni, ma tutto questo non basta a spiegare il rapporto controverso e “la distanza” tra donne e politica, insomma non è  solo questo! Il rapporto donne e politica  è stato e resta controverso: autoescluse od escluse e marginalizzate?; infatti si continua a discutere  di  una presunta storico-vocazionale estraneità delle donne alla politica, al potere ed alla cosiddetta sfera pubblica da un lato e delle forme di esclusione e di discriminazione delle donne nei meccanismi della politica dall’altro.

Inoltre, e questo è vero,  le donne  si impegnano con slancio nelle forme associative e nelle questioni sociali e collettive, raramente puntano a portare a casa qualcosa per se stesse e sono – spesso – le  protagoniste della partecipazione politica di “secondo livello”, intesa come fenomeno multidimensionale, quella non istituzionalizzata e non visibile.

Infine, le polemiche sulle cosiddette “quote rose” hanno rappresentato un’occasione – perduta – per affrontare e risolvere il nodo della rappresentanza femminile nei sistemi democratici, pur conservando, almeno, il merito di aver spostato l’attenzione sul concetto di equilibrio della rappresentanza e di esigenza di simmetria del sistema piuttosto che su quello di  un genere, meritevole di un meccanismo di tutela o di  “gabbia premiale”.

Al di là ed oltre i dati, una considerazione va fatta; si è trasformato nel tempo il ruolo delle donne nella politica e si è anche modificata, insieme al costume, quasi l’antropologia delle donne in politica ed i vecchi stereotipi e luoghi comuni appaiono – e per fortuna! – davvero insufficienti per interpretare il nuovo mondo politico femminile. Intanto,  i molti esempi concreti, al livello nazionale ma anche internazionale, di leadership femminile e di affermazione in posizioni apicali , anche su un versante riconducibile, più o meno giustamente, ad una cultura conservatrice e liberale, sottolineano come  la sinistra abbia perso definitivamente  la presunta “egemonia del e sul  mondo femminile”.  Si sfata, anche,  un vecchio luogo comune che ascriveva ai “mali della destra” quello di  una cultura conservatrice che consente solo a pochissime donne di infrangere la barriera invisibile del “soffitto di cristallo” e di occupare posizioni di vertice; in contrapposizione ad una cultura progressista che farebbe affermare le moltitudine femminili. Inoltre, tanto a destra quanto a sinistra, le donne impegnate in politica rappresentano – ed a me pare un bene –  un “plurale femminile”, di cui su queste colonne abbiamo già detto,  piuttosto che una categoria dal pensiero ( e dal look) unico.

Il problema però resta sempre lo stesso, quello di contare; poche o tante che si sia! E si ha quasi l’impressione che le donne della Prima Repubblica ( poche) sapessero contare un po’ di più, delle più numerose arrivate in Parlamento con un altro meccanismo elettorale. E sì, perché, il metodo delle cooptazioni di vertice (di partito o di corrente di partito che sia) porta con sé il rischio ed il difetto – pur nel rispetto delle numerose eccezioni  – di creare gregarie e gregari.   Resta centrale l’esigenza di  qualificare la rappresentanza, sia maschile che femminile, e di definire criteri di scelta e di selezione delle candidature; andando anche oltre la concezione delle “quote rosa”  per porre la questione lì dove merita di essere posta ossia sul piano dell’efficacia dei sistemi democratici.

Quando non si ha in Parlamento quel 50% di  rappresentanza paritaria e si è ancora lontani dalla soglia del 30%  – stabilita (nel 1990) dalla Commissione ONU sulla Condizione femminile – considerata come quota minima ai livelli nazionali affinché le donne possano  avere un peso a livello decisionale, significa che esiste un deficit di democrazia.

La scarsa presenza delle donne nei luoghi della decisione politica ed economica costringe a riflettere sulla qualità della democrazia moderna;  una riflessione  che superi la generica “protesta femminile” e ponga – appunto – la questione sul piano della compiutezza del  sistema politico e ragioni sullo scarto  tra democrazia sostanziale e democrazia descrittiva e normativa. Sempre  nella personale convinzione, già espressa, che – comunque –  più donne nelle Istituzioni facciano il bene  (non necessariamente il bello !) della politica e siano garanzia di “buon governo”.

“Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

Fonte: Inter Parliamentary Union (febbraio 2009 ) organismo delle Nazioni Unite che rileva le presenze delle donne nei parlamenti di 188 Paesi www.ipu.org.

Isabella Rauti

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