Nel corso dell’ultima edizione della tradizionale «Giornata Tricolore», organizzata come di consueto dal «Centro Studi Dino Grammatico», a Custonaci (Trapani) la Senatrice Isabella Rauti (Presidente del «Centro Studi Pino Rauti») ci ha rilasciato un’interessante intervista sul momento attuale della politica italiana, ma anche sui riferimenti culturali e identitari di una comunità militante che affonda le sue radici lontano nel tempo.
Carissima Isabella, vista la situazione attuale, non ritieni che sia giunto il tempo delle idee per una nuova Italia?
Io sono convinta che le idee di fondo siano sempre le stesse. Mi spiego le idee, e scusate la citazione, che “mossero il mondo”, perché continuano a muoverlo ed in questo ovviamente non c’è, chi mi conosce lo sa, nessuno atteggiamento di musealizzazione, non c’è nessuna inclinazione al nostalgismo, al passatismo né tantomeno all’immobilismo, all’antiquariato ideale o ideologico, ma c’è, invece, la consapevolezza – mia e per fortuna di un’intera comunità di generazioni diverse – di portarsi dentro questo patrimonio ideale e culturale che vogliamo rielaborare, perché siamo convinti che sia in grado di metterci nella condizione di trovare risposte ai nuovi bisogni ed alle nuove sfide della post-modernità. Penso che il compito della politica sia anche questo altrimenti la politica diventa solo un rincorrere la cronaca quotidiana, sicuramente importante per la vita del Paese, ma serve anche alzare lo sguardo, per avere una visione ampia e di prospettiva; la politica del “pensiero lungo” ha anche questo compito e questa vocazione. Spero anche un suo destino.
Per avere questa visione alta della Politica bisogna avere anche una certa dimestichezza sugli eventi che governano il mondo, con un occhio attento alla propria identità.
Oggi nessuno di noi può fare un progetto politico senza avere la percezione della dialettica tra Nord e Sud del mondo, delle dinamiche della geopolitica e dei suoi equilibri, nonché del ruolo centrale del Mediterraneo, dei conflitti vecchi e nuovi. Non si può pensare ad un progetto politico senza avere – ad esempio – idea della crisi demografica in atto o della sfida dell’immigrazione o delle grandi emergenze planetarie comprese quelle ambientali. Altrimenti si ha una visione che non può essere anche corretta, ma miope e limitata. A questa necessità di visione vanno aggiunte alcune parole chiave come l’identità di popolo, nella consapevolezza della nostra civiltà millenaria, rispetto a quell’onda anomala, che agisce come un rullo compressore, della globalizzazione. E anche il concetto di sovranità e quello dell’interesse nazionale (oggi talvolta minacciato da organismi sovranazionali) sono valori che vanno difesi perché non si può cedere nulla in termini di sovranità nazionale. Serve recuperare l’attaccamento alla Patria, alle sue radici culturali, alla sua lingua, ai suoi dialetti. A tutto ciò che contraddistingue e distingue, con la sua unicità la propria Patria e la propria Terra e anche le piccole Patrie, che appartengono all’identità nazionale e che contribuiscono a definirla.
Oggi si corre spesso il rischio di essere minacciati da diverse forme di populismo rispetto al quale, non ritieni, bisogna fare chiarezza?
Il populismo può diventare una minaccia e rappresentare un rischio. Soprattutto lo lascerei come deriva della politica in totale appannaggio dei neo-giacobini del Movimento 5 Stelle. Noi veniamo da un’altra storia e non siamo populisti, ma nazional popolari e con il popolo vogliamo celebrare un patto sociale. Noi siamo quelli che vogliono ricomporre la frattura tra popolo e politica. Noi siamo quelli che quando dicono popolo, dicono centralità della persona all’interno della declinazione di un programma politico. Siamo anche quelli che rivendicano e che vogliono una politica che sia rappresentanza e non delega o peggio autoreferenzialità. Sul piano pratico il concetto della rappresentanza richiede, anche delle modifiche, innanzitutto della legge elettorale esistente da rivedere in senso maggioritario, ma anche riforme di carattere costituzionale nella direzione di una Repubblica presidenziale. Bisogna che la politica si fondi sul consenso e bisogna che la politica sia rappresentanza e democrazia compiuta e non asimmetrica e deficitaria.
Non ritieni necessaria, proprio in questo senso, un’azione politica, che sia in grado di intercettare, di ascoltare e di rispondere alle istanze reali che provengono, nel senso più nobile del termine, dal basso?
C’è chi dice che mettere o rimettere il popolo al centro della politica sia un’utopia magica, per altri è un’utopia concreta, per noi è una realtà ed un dovere. Dal mio punto di vista la risposta non è nel populismo, che considero una deriva. Non mi piace come definizione e si presta anche ad un inganno. I Cinque Stelle ne sono la metafora plastica dell’affermazione e della vittoria dell’antipolitica, ma non nel senso del tradimento della vocazione principale della politica, che è quella di assicurare il bene comune. Il populismo è un inganno perché non ha niente a che fare con le politiche sociali, con le politiche popolari e con le reali politiche di solidarietà.
Fare attività politica ai nostri giorni è veramente complicato. La frammentazione della società italiana è sempre più palese ed è forse il vero motivo che non consente di raggiungere obiettivi importanti.
Nella nostra elaborazione politica dobbiamo puntare ad un obiettivo: ricomporre quello che è stato definito da Bauman lo «sciame sociale», che deve essere appunto ricomposto in «comunità solida» ed in una «comunità nazionale» con il senso dell’appartenenza.
Quella che oggi è una «società liquida», e che i social-media rendono ancora più liquida, deve cercare la strada per ritrovarsi e per ricostruire la coesione sociale. Penso che la globalizzazione abbia mostrato tutta la sua fragilità, questo rafforza la necessità e favorisce la consapevolezza che si deve ricomporre quella frattura, a cui facevo riferimento, tra popolo e politica, tra popolo e partiti, tra popolo ed élite, tra governati e governanti. Ricomporre queste fratture, comporta il ritorno alla centralità della politica, della buona politica intendo con la persona al centro! Direi anche una sorta di ritorno dell’ante-politica per concludere, una volta per tutte, la stagione dell’anti-politica e marginalizzare chi l’ha rappresentata nel peggiore dei modi, dando una risposta sbagliata ad una domanda giusta. Mi sembra utile invocare il ritorno all’ante-politica, mettendo tra parentesi la fase dell’anti-politica; ed il nostro mondo farà meno fatica di tutti gli altri, perché nonostante alcuni inevitabili cambiamenti e nonostante le nostre diaspore, siamo rimasti fedeli a noi stessi e siamo quelli più capaci di riprendere in mano il bandolo di una politica sana, genuina ed autentica, che ascolta e dà risposte. In questo senso parlo dell’ante-politica come capacità di dare risposte ai reali bisogni dei cittadini.
Torniamo a quella frattura a cui facevi riferimento, ovvero a quella crisi politica e di sistema, che poi è anche una crisi di consistenza stessa della democrazia. Non pensi che bisogna ripartire da una «responsabilità dei valori» di cui ogni società sana dovrebbe essere portatrice?
Il nodo da cui dobbiamo ripartire è l’assenza del rapporto tra popolo e politica, tra popolazione e Istituzioni. Ripartire dall’attuale crisi della politica, che si è espressa attraverso tutti i tatticismi che ci hanno imposto o attraverso i trasformismi ai quali abbiamo assistito increduli e disgustati, creando maggioranze improbabili e contro natura. Oggi la totale impreparazione viene, addirittura, assunta come criterio meritocratico che è il paradosso dei paradossi. Bisogna, invece, proprio ripartire dalla responsabilità dei valori. Dal territorio, da un’economia sociale di mercato che sia sussidiaria ed inclusiva, ma che non sia assistenzialismo fine a sé stesso e, soprattutto, un’economia che ci veda liberi dalla oppressione fiscale cui siamo soggetti.
Tuttavia questo ritorno all’ante-politica non delinea la possibilità di un ritorno all’esistenza delle ideologie, che, invece, sembrerebbero ormai definitivamente superate se non addirittura volutamente “cancellate” dalla storia?
Ragionare sulla fine delle ideologie mi fa, naturalmente, tornare alla memoria quando mio padre in alcuni congressi missini – talvolta senza essere pienamente compreso – esponeva le tesi di Francis Fukuyama sulla «fine della storia» e sulla fine delle ideologie. Fukuyama diceva che nel XX secolo si sarebbe raggiunto l’apice di questo dissolvimento e che poi ci sarebbe stato qualcosa di fluido che avrebbe causato il crollo delle ideologie e appunto la «fine della storia». Ricordo anche, mentre lui esponeva queste tesi alla platea, facce perplesse ed occhi un po’ smarriti. Non tutti allora compresero la portata, non solo di quello che mio padre raccontava, ma soprattutto delle previsioni contenute nelle tesi di Fukuyama ed oggi, invece, siamo qui con lucidità e consapevolezza ad analizzare quanto è accaduto e ad ammettere che si è realizzato era stato previsto. Egualmente si è verificato – e mio padre ne parlava nelle stesse sedi congressuali anticipando in modo profetico quanto è avvenuto – il superamento delle categorie di destra e di sinistra, intese come categorie ottocentesche o meglio come etichette dell’Ottocento superate da una destra sociale per «andare oltre» ed elaborare una politica che fosse in grado di dare delle risposte alle sfide poste dalla modernità. Il sistema bipolare ripropone lo schema destra – sinistra in termini diversi e un po’ convenzionali, ma quella del superamento delle categorie ottocentesche è stata un’intuizione profetica e feconda, che non portava con sé l’abbandono di quelli che sono le idee ed i valori della Destra ma voleva “comprenderli e superarli” in una visione politica fedele, ma rinnovata ed attenta alle nuove emergenze. Tornando al tema, le generazioni più giovani sono cresciute immerse in credenze post-ideologiche, che hanno portato quello che tecnicamente viene definito il «disallineamento dell’elettorato». Cioè lo spostamento anche nei voti e nei consensi e, quindi, alla caduta delle ideologie ed al superamento delle categorie tradizionali. Oggi viviamo tutti un po’ immersi nel post-ideologismo, ma – attenzione – c’è un’ideologia che a mio avviso resiste e ci minaccia, quella del «pensiero unico», che non è affatto post, ma è molto ideologica e vorrebbe imporsi come dominante. E dal mio punto di vista è la minaccia principale alla quale dobbiamo lanciare la nostra sfida. L’ideologia del «pensiero unico» è quella che vuole trasformare le persone in numeri. È quella degli algoritmi. È quella che vuole svuotare di senso e di valore le identità, le tradizioni, la famiglia e la storia.
Oggi appare sempre più evidente che esiste una censura, che si abbatte contro chi esprime la sua idea nel contrastare l’avanzata del cosiddetto «pensiero unico».
C’è un pensiero unico, abbiamo detto, ma c’è soprattutto un’offensiva sottile, diffusa, pervasiva attraverso la globalizzazione e la sua potenza nichilista; un rullo compressore che viaggia con la globalizzazione e colpisce, ad esempio, la famiglia, con la sua ideologia gender di genitore 1 e 2; delle oltre 50 “identità di genere” contemplate. E, ancora, l’offensiva colpisce quando con “l’automatismo” dello ius soli vorrebbe concedere la cittadinanza o quando rivendica come diritto la pratica dell’utero in affitto e la maternità surrogata per vendere figli alle coppie omosessuali. Tutti elementi – e si potrebbero fare anche altri esempi – di una medesima visione nichilista, che lancia quotidianamente la sua guerra radicale, profonda e pericolosa a quello di cui noi siamo portatori e difensori: l’identità e la tradizione. Quella tradizione che sfida la modernità. Quella tradizione che è in grado di rinnovarsi. Quella tradizione che sa essere rivoluzionaria e non naftalina. La minaccia e l’attacco è sferrato all’identità, alle tradizioni, alla sovranità nazionale, alla nostra religione, all’Europa dei popoli e delle piccole patrie. Un’Europa di Stati liberi e sovrani, che riconosca le sue radici cristiane.
La sfida c’è ed è la sfida delle identità, delle tradizioni e delle radici. Tutto questo è sicuramente un programma ed una visione politica e culturale ed è il nostro contributo per salvare l’identità nazionale, le identità locali, le piccole patrie e la sovranità nazionale contro le oligarchie, contro i maestri della globalizzazione, contro anche l’islamizzazione dell’Europa che passa attraverso la demografia religiosa e l’arrivo indiscriminato di ondate migratorie. La minaccia esiste e noi, dunque, dobbiamo fare fronte, per difendere il concetto della libertà. Non solo delle libertà individuali, ma della libertà di pensiero, della libertà di parola, della libertà di espressione che si dà per scontata, quando scontata non è. Perché c’è il «pensiero unico» e dominante, che è un “moloch” minaccioso e prepotente della cui pervasività tentacolare forse non abbiamo la percezione esatta.
Tuttavia per contrastare tutto ciò ci vorrebbe un Governo che tuteli e difenda le prerogative identitarie. Quello attuale, a parte che non sembra affatto interessato, non sembrerebbe attrezzato per una sfida così importante.
Questo è un Governo abusivo e senza consenso, che invece è uno dei pilastri della democrazia.
È un Governo senza consenso interno, perché tra di loro lo dicono continuamente non si apprezzano ed è privo, anche, di un consenso esterno, perché non si è misurato con il voto popolare. Ci ritroviamo, quindi, con un Governo senza consenso e senza rappresentatività, secondo concetto fondamentale e asse portante di ogni visione e di ogni costruzione democratica.
Tutti quelli che, mentre noi chiedevamo e continuiamo a chiedere il voto anticipato, ci davano lezioni di diritto costituzionale, ci dicevano che c’era necessità di dare vita a questo Governo privo di consenso e privo di rappresentanza, perché siamo una democrazia parlamentare ovvero basata sulla maggioranza presente in parlamento, ignorando che la stessa democrazia parlamentare non solo riconosce la sovranità al popolo, ma prevede anche come diritto, altrettanto costituzionale, che ci sia una concordanza tra il corpo elettorale e quello parlamentare, una sorta di armonia tra il sentimento politico più diffuso nel Paese e la maggioranza in Parlamento, concordanza e armonia che non ci sono in questo Governo. Lo stesso diritto costituzionale, inoltre, prevede che si possa ricorrere allo scioglimento anticipato delle Camere se giudicato opportuno, ovvero quando ci sia disarmonia fra l’attività degli eletti ed il sentimento popolare. Io non ricordo disarmonie peggiori di quelle espresse da questo Governo, che ci è stato imposto calpestando la rappresentanza, il consenso e la sovranità popolare.
Invece proprio le democrazie sono al centro del desiderio politico. Questo desiderio politico è un desiderio che resta insoddisfatto. Le democrazie che conosciamo sono fragili, sono deficitarie, sono contraddittorie, perché con un sistema elettorale malato la vittoria non va più alle maggioranze e questa è la contraddizione più profonda ed è anche il rovesciamento del concetto fondamentale di sovranità popolare. Un sistema elettorale malato che ha trasformato, le cosiddette minoranze sociologiche in maggioranze politiche e, infatti, oggi governa chi ha perso le elezioni e non chi le ha vinte nel sentimento popolare per questo ribadisco dovremmo rimettere il demos al centro della politica.
Intervista a cura di Fabrizio Fonte
GT 2020 Rassegna Siciliana – Intervista a Isabella Rauti
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