di Fausto Biloslavo
Tutte le potenze economiche e militari – inclusa l’India – si stanno impegnando per una presenza (si legga, uno sfruttamento) del ricchissimo territorio polare, ora più accessibile a causa del cambiamento climatico. La Russia qui ha storici interessi. Ma è tra Cina e Stati Uniti che si gioca la competizione decisiva.
Puntini bianchi nella neve sono gli alpini del 3° reggimento e 4° Ranger, che avanzano simulando un assalto ad una postazione nemica in ambiente artico. La battaglia dell’esercitazione Volpe Bianca, di metà marzo, sembra autentica con le raffiche a ripetizione della 35sima compagnia Vipera. I tiratori scelti con una speciale telo di copertura IR, che li rende invisibili ai droni, motoslitte futuriste per gli alpini paracadutisti, cingolati BV 206 adatti ad avanzare nella neve, nello scenario montano di Prato Piazza, a duemila metri di altitudine, in Val Pusteria, Alto Adige. Per non parlare dell’alta tecnologia: il cane robot, che fa da esploratore e può trasportare munizioni, droni di tutti i generi per individuare il nemico e colpirlo con attacchi kamikaze, la bolla tattica creata dagli specialisti del 9° Reggimento Sicurezza cibernetica Rombo, per disturbare gli attacchi dei velivoli senza pilota avversari. E pure un obice Oto Melara da 105 millimetri, che spara cannonate a salve, come fanno davvero gli stessi pezzi d’artiglieria consegnati agli ucraini sul fronte del Donbass. La differenza è che gli alpini manovrano a meno 5°C, in Ucraina d’inverno si combatte a meno 18°C e nell’Artico lo stesso corpo militare italiano ha operato a meno 32°C.
«L’Artico è il teatro del ritorno sullo scenario globale della politica di potenza» afferma Isabella Rauti, sottosegretario alla Difesa, che ha assistito all’esercitazione Volpe Bianca e voluto un forum di esperti sull’estremo Nord. «Tra i ghiacci è già in atto una sfida con l’Occidente da una parte, Cina e Russia dall’altra, con l’India pure molto coinvolta in questo scenario» sottolinea. «L’Europa e l’Italia non possono rimanere indietro o venire tagliate fuori dalla partita del futuro». L’Artico si estende per 30 milioni di metri quadrati, un sesto della superficie terrestre, ed è strategico per l’immenso «tesoro» del suo sottosuolo. Un forziere con riserve di petrolio e gas che valgono 35 mila miliardi di dollari, il 40 per cento delle riserve conosciute mondiali. Per non parlare di terre rare e minerali critici, le pietre preziose e i giacimenti di uranio a cominciare dalla Groenlandia. Non solo: fra il 2030 e 2040 lo scioglimento dei ghiacci permetterà l’apertura di nuove rotte marittime che diminuiranno del 40 per cento costi e tempi di navigazione tagliando di 6.400 chilometri il trasporto di merci da Shanghai a Rotterdam.
La corsa alla «nuova frontiera» è un obiettivo strategico delle superpotenze, che puntano anche alla militarizzazione dell’Artico. L’avamposto americano di Thule in Groenlandia, ribattezzata base spaziale di Pituffik, si contrappone alla grande base russa del «Trifoglio artico», 14 mila metri quadrati inaugurata da Vladimir Putin nel 2017. Mosca è l’azionista territoriale di maggioranza fra i ghiacci. Guerra bianca è il titolo del libro edito da Neri Pozza di Marzio Mian, che avverte: «Si apre un nuovo continente. Questo è il secolo dell’Artico, ma si rischia uno scontro geopolitico epocale». Il 18 febbraio scorso, a sorpresa, Kirill Dmitriyev, che gestisce il più importante fondo di investimenti russo, ha rivelato che durante i negoziati in Arabia Saudita, fra gli americani e gli inviati di Putin, si è parlato anche «di progetti comuni nell’Artico». Non a caso agli incontri ha partecipato anche Vladimir Proskuryakov, alto funzionario del ministero degli Esteri russo, specializzato nell’estremo Nord. L’obiettivo del presidente Usa è «provocare una frattura fra Mosca e Pechino» recuperando terreno e investimenti persi fra i ghiacci.
Nel 2012, il gigante petrolifero americano, ExxonMobil, aveva chiuso un accordo con la società statale russa Rosneft per investire 500 milioni di dollari nell’esplorazione petrolifera dell’Artico e del Mar Nero. Gli statunitensi si sono ritirati nel 2018 a causa delle sanzioni occidentali per l’annessione della Crimea da parte di Mosca. E gli spazi vuoti sono stati occupati dai cinesi, che hanno investito 20 miliardi di dollari nella Russia artica. Una banca vicino all’Esercito popolare di liberazione cinese ha finanziato il potenziamento del grande porto di Sabetta, nella Penisola di Yamal. Altri investimenti riguardano progetti energetici, come la pipeline che parte dal primo impianto artico di gas liquefatto che si trova sempre a Yamal. Le imprese statali cinesi hanno sostituito gli occidentali, con una quota del 20 per cento, anche nel progetto Arctic Lng 2 e collaborano sulla tecnologia per i rompighiaccio.
«I cinesi sono affamati di gas liquido naturale e per Putin l’Artico è un bancomat» osserva Mian. «Sia Pechino, sia Washington, però, non riconoscono la giurisdizione russa sul passaggio a Nord-est». La Cina si è autonominata «Stato vicino all’Artico», anche se è posizionata a 1.400 chilometri di distanza. L’obiettivo è diventare una grande potenza polare entro il 2030, quando lo scioglimento dei ghiacci aprirà nuove rotte. Il progetto è la Via della seta polare da Dalian, città affacciata sul mar Giallo a Rotterdam. Un documento strategico cinese ribadisce «il diritto a navigare, sorvolare, eseguire ricerche scientifiche, predisporre cavi di comunicazione sottomarini e oleodotti nell’oceano Artico». Le navi Eduard Toll e Vladimir Rusanov, con 172 mila tonnellate di gas ciascuna, hanno navigato per la prima volta senza rompighiaccio dal citato porto russo di Sabetta a quello cinese di Rudong. Il tragitto è durato 19 giorni rispetto ai 35 della rotta normale attraverso il canale di Suez.
Pechino ha aperto la base artica «Fiume giallo», ufficialmente di carattere scientifico, nell’arcipelago di Svalbard, a metà strada fra la Norvegia e il Polo Nord. E ha varato i rompighiaccio, «dragoni delle nevi», Xuelong 1 e 2, che sono nulla rispetto ai 43 della Russia, compresi sette a propulsione nucleare e ai tre americani. Il presidente Donald Trump, appena insediato, ha però annunciato l’intenzione di varare 40 nuovi rompighiaccio. La dottrina artica degli Stati Uniti denuncia «la minaccia militare cinese» e le «finte basi scientifiche nella regione».
Nel suo libro, Mian si chiede: «Sarà nuova guerra bianca?». Anton Vasiliev, ex ambasciatore russo in Islanda, sostiene che «il nuovo ordine mondiale si decide oltre il Circolo polare». Gli Usa sono corsi al riparto quando, nel 2023, una flotta di navi militari russe e cinesi, si è materializzata per esercitazioni in acque internazionali, nello stretto di Bering, ad un passo dall’Alaska. «Per il commercio internazionale, l’apertura delle rotte artiche porterà indubbiamente profondi mutamenti nelle dinamiche commerciali mediterranee, minacciando la sua centralità» sottolinea ancora il sottosegretario Rauti. «La domanda da porsi per tempo è quali saranno i riflessi sull’Italia che, attraverso i porti di Gioia Tauro, Genova e Trieste, rappresenta uno snodo cruciale per i traffici commerciali sia per l’Europa sia a livello globale, con importanti ricadute economiche sul nostro Paese». Un altro cruciale terreno di scontro è la Groenlandia. Trump vuole comprarla dalla Danimarca, ma la Cina sta penetrando da tempo nell’isola più grande del mondo, con soli 57 mila abitanti, dove l’11 marzo hanno vinto le elezioni i partiti indipendentisti. Un rapporto dell’agenzia geologica americana stima che il sottosuolo dell’isola artica racchiuda il 13 per cento delle risorse mondiali di petrolio e il 30 per cento di quelle di gas. Oltre a pietre preziose come rubini e diamanti, ma pure minerali critici e terre rare, ben più importanti del Donbass. Lo scioglimento dei ghiacci porterà alla luce giacimenti, ancora da esplorare, dal valore di 300-400 miliardi di dollari. La Groenlandia è ricca di uranio, ma la sua estrazione resta un tabù per la popolazione inuit.
La Cina è un importante partner economico dell’isola: solo le esportazioni di pesce, come i gamberetti, hanno raggiunto un valore di oltre 350 milioni di dollari. Il giacimento minerario del progetto Tanbreez, le terre rare più vaste della Groenlandia, fondamentali per auto elettriche e sistemi di controllo dei missili, faceva gola a società collegate a Pechino. Alla fine l’ha spuntata la Critical Metal di New York, ma i cinesi sono tornati alla carica, nei primi mesi dell’anno, su altri giacimenti. «Gli Stati Uniti temono che la Repubblica popolare possa controllare l’accesso ai minerali essenziali in Groenlandia» conferma Heino Klink, vice segretario della Difesa nella prima amministrazione Trump. «Questo territorio polare è considerato strategico per la difesa degli Usa, fondamentale per l’allerta precoce di un attacco missilistico». Rauti sottolinea che per la Casa Bianca «si tratta di sicurezza nazionale. La “postura” geopolitica di Trump va letta in chiave anti cinese per gli interessi commerciali, militari ed estrattivi di Pechino nell’Artico». La grande partita dei ghiacci è appena all’inizio.
[Fonte: www.panorama.it]