Roma, 30 luglio 2009
Intervento della Prof.ssa Isabella Rauti, Capo Dipartimento Pari Opportunità Presidenza Consiglio dei Ministri
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che il godimento del miglior stato di salute raggiungibile costituisce uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano senza distinzione di razza, religione, opinioni politiche, condizione economica o sociale. Il diritto alla salute in generale rientra, quindi, nella tutela antidiscriminatoria ed in una concezione estensiva della equità di opportunità per tutti. Non è casuale, infatti, che il Consiglio dei Ministri d’Europa abbia formulato, il 30 gennaio 2008, una raccomandazione agli Stati Membri in cui si sottolinea che “l’obiettivo per produrre uguaglianza, equità e rispetto dei diritti umani (…) nell’ambito della salute richiede che gli effetti delle differenze di genere e le loro conseguenze siano prese in considerazione nella pianificazione delle politiche sanitarie e nelle prestazioni sanitarie e nei processi derivanti”.
Il D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81 (il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro) propone all’intero sistema lavoro molteplici sfide che possono e devono trasformarsi in altrettante opportunità (anche in termini di competitività), a partire dall’introduzione di una concezione di “salute e sicurezza” e di “prevenzione” non più “neutra”, ma che deve tenere conto delle differenze legate al genere: all’art. 1, infatti, fa espresso riferimento alla garanzia “dell’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età e alla condizione delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”.
Proprio questo tenere nella dovuta considerazione le differenze tra i generi e le peculiari condizioni soggettive permette, nei fatti, di perseguire quel godimento del miglior stato di salute “senza distinzioni…” a cui fa riferimento l’OMS.
Tra i vari compiti attributi dalla Delega al Ministro per le pari opportunità vi è quello di promuovere azioni volte ad assicurare l’attuazione delle politiche concernenti la materia dei diritti e delle pari opportunità di genere, con riferimento, tra l’altro, al tema della salute, nonché alla promozione della cultura dei diritti e delle pari opportunità, con particolare riferimento alla prevenzione sanitaria. Il Ministro per le pari opportunità ha costituito ad ottobre 2008 una Commissione di Studio avente ad oggetto il tema della salute. La Commissione è, in particolare, incaricata di formulare proposte per l’attuazione di un programma diretto a promuovere la salute dei bambini/e l’infanzia e delle donne, anche attraverso il contenimento dei tagli cesarei; suggerire azioni positive volte ad offrire pari opportunità ai pazienti affetti da malattie neoplastiche al fine di implementare sul territorio strutture dedicate, profilassi adeguate e tempestività nella diagnosi e cura; proporre campagne promozionali e informative, indicare azioni positive per la promozione delle pari opportunità delle donne immigrate.
Già nel luglio del 2007 è stato siglato un Protocollo d’intesa tra Dipartimento Pari Opportunità e INAIL mirante, tra l’altro, a “favorire il diffondersi di una cultura attenta ai temi della salute in ambito lavorativo che tenga in adeguata considerazione le diversità tra uomini e donne; favorire l’informazione e la comunicazione tra le istituzioni e i diversi soggetti impegnati sulle problematiche di genere, di dati e statistiche relativi al fenomeno infortunistico e tecnopatico nel mondo del lavoro letto con una prospettiva di genere; mettere a disposizione le proprie competenze per la lotta ad ogni forma di discriminazione e per la repressione di ogni comportamento lesivo dei diritti umani, ivi comprese le forme di lavoro sommerso che ledono la dignità delle persone”.
Il lavoro di ricerca e riflessione – nell’ambito del “Progetto nazionale di prevenzione della salute nei luoghi di lavoro in ottica di genere” derivante dal protocollo d’intesa citato – che ha portato alla pubblicazione del presente volume, è stato realizzato a partire da questa consapevolezza e dalla volontà di segnare un punto decisivo a sostegno del fatto che non si possa parlare di salute di donne e uomini sul lavoro se non a partire dalla promozione dell’equità di genere che interessa trasversalmente le peculiari condizioni di lavoratrici e lavoratori, comprese quelle legate all’età e alle diverse provenienze geografiche.
Il volume vuole offrire un primo solido contributo a tutte le istituzioni competenti, alle Parti sociali e ai professionisti del Sistema Salute e Sicurezza, collocandosi nel processo di elaborazione di Linee guida dedicate.
Diviene infatti indispensabile avviare un processo che porti in direzione di una modificazione dell’evoluzione culturale e dei comportamenti, in modo da dare concretezza al Mainstreaming di genere attraverso cambiamenti strutturali nell’ottica di un sostanziale rovesciamento di prospettive.
Parlando di genere si fa ancora riferimento a stereotipi, ovvero a mappe mentali che influenzano la comprensione della realtà, riproducendo modelli culturali e ruoli sociali con effetti segreganti e discriminanti.
Sia il termine genere che stereotipo sono stati mutuati dalle scienze sociali e riguardano il rapporto conoscitivo con la realtà esterna che non è diretto ma mediato dalle immagini mentali che di quella realtà ognuno si forma. Tali immagini non sono altro che semplificazioni piuttosto rigide che il nostro intelletto costruisce quali “scorciatoie” per comprendere l’infinita complessità del mondo esterno. Questa “costruzione mediata socialmente” (nel caso degli stereotipi) riveste una funzione difensiva dell’identità del gruppo che ha prodotto gli stereotipi, in quanto concorre al mantenimento dello stesso sistema sociale che li ha generati.
La caratteristica evidente degli stereotipi è la loro persistenza; direi che sono “idee” dure a morire ed incuranti non solo della complessità ma anche dei mutamenti della realtà.
Quando si associa, senza riflettere, una categoria o un comportamento a un genere, si ragiona utilizzando gli stereotipi di genere; il loro uso produce e comporta una percezione rigida e distorta nonché distorsiva, della realtà e di quanto comunemente si intende – appunto – per “femminile” e “maschile” e su ciò che ci si aspetta, quindi, dalle donne e dagli uomini.
L’effetto degli stereotipi di genere e dei pre-giudizi che ne derivano, è quello di una gabbia interpretativa e di un perimetro dato come stabilito che finisce per limitare e comunque condizionare lo stile di vita, le azioni ed i pensieri delle persone.
Il cimentarsi con l’applicazione del Testo Unico in materia di Salute e Sicurezza sul lavoro “obbliga” ad andare oltre lo stereotipo in quanto impone un processo di produzione di conoscenza situata di peculiarità e differenze, attraverso la produzione intenzionale e l’analisi di dati e informazioni “oggettive” e attraverso la raccolta di percezioni “soggettive”. Rappresenta quindi una occasione ineguagliabile visto il campo di applicazione esteso a tutti i luoghi di lavoro e di studio.
Il Testo Unico va ad arricchire (e nel contempo implicitamente ricomprende) una serie di norme che, occorre sottolineare, troppo spesso – quando si tratta di normative di parità e di pari opportunità – evidenziano nella loro applicazione uno scarto tra la parità normativa descrittiva cogente e la parità sostanziale, sociale ed effettiva. Questo è esattamente lo spazio molle in cui non solo si annidano le forme di non attuazione dei principi di pari opportunità, ma dove affondano le radici e crescono tutti gli atteggiamenti discriminatori.
Quali sono gli altri elementi di criticità su cui occorre operare? Il principale riguarda senza dubbio i modelli di organizzazione del lavoro.
Noi viviamo in una società che viene definita post-fordista che ha modificato completamente il suo volto, una società in cui i modelli di organizzazione del lavoro si sforzano di inseguire i cambiamenti verificatisi, stentando ad adeguarsi alle nuove esigenze. In realtà noi viviamo ancora in un meccanismo estremamente rigido, pur se invochiamo costantemente modelli di flessibilità di varia natura. È come se ci fosse uno scarto difficilmente riducibile tra le aspettative delle modifiche da introdurre e la possibilità di plasmare il modello di organizzazione del lavoro rispetto ad esse. Esiste, in definitiva, una riottosità dei modelli organizzativi rispetto ad una flessibilità concreta, che permetta la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata. Un altro aspetto critico, che emerge è quello legato alla rappresentanza femminile nelle posizioni manageriali. È evidente che bisogna immaginare politiche di gestione del personale che favoriscano e poi garantiscano l’equilibrio delle presenze femminili nelle posizioni dirigenziali e all’interno delle progressioni di carriera. In realtà, nonostante i tanti cambiamenti introdotti, i processi di carriera restano ancora fortemente condizionati da logiche stereotipate. Si riproducono cioè all’interno delle organizzazioni alcune logiche che si incontrano anche nella mentalità comune corrente. Imbattersi con gli stereotipi nella vita privata o in un qualsiasi contesto sociale ha naturalmente un certo impatto, ma vederli legittimati all’interno di un contesto professionale produce un effetto di maggiore smarrimento. Esistono poi degli aspetti quantitativi che non possono sfuggirci, come i divari salariali e i differenziali retributivi, annidati nelle competenze salariali accessorie, che vanno a svantaggio delle donne.
Il processo di valutazione dei rischi deve partire dalla descrizione del personale suddiviso per sesso, includendo la progettazione di indicatori di genere. Gli obiettivi da raggiungere sono: la rimozione delle discriminazioni, l’adozione di misure correttive (incluse le azioni positive) e la loro messa a sistema nell’organizzazione del lavoro. Quest’ultimo elemento prevede un’organizzazione strutturata su modalità che favoriscano la conciliazione dei tempi di vita e dei tempi di lavoro, nell’ottica di un’organizzazione amichevole rispetto alle esigenze dei dipendenti e che sia consapevole del fatto che la maggior parte delle disfunzioni che noi riscontriamo nasce dalle difficoltà di attuazione della conciliazione stessa.
Proprio per questo aspetto di grande presenza femminile, la Pubblica Amministrazione, ad esempio, rappresenta in un certo senso la metafora delle contraddizioni insolute, che può essere esteso alla rappresentanza femminile nelle istituzioni, come in molti altri comparti. Il meccanismo sociale che risulta dall’analisi è quello di una presenza quasi ineccepibile di normative a garanzia dei diritti di pari opportunità, ma di uno scarto sostanziale nella loro applicazione.
Nel mondo del lavoro non c’è solo una forte presenza di donne che non raggiungono le posizioni direttive, ma anche una grande qualificazione delle donne lavoratrici. Se andiamo a vedere i titoli di studio ci rendiamo conto che si tratta di personale qualificato.
Se, poi, la maternità ha un valore sociale questo valore va riconosciuto e ne deve conseguire un riconoscimento che deve essere valutato nel momento in cui si va a computare il tutto. Se gli aspetti legati al lavoro di cura, che riguardano la maternità, come l’assistenza della terza e quarta età, incidono sul lavoro e sulla vita delle donne, essi devono essere presi in considerazione e devono essere valutati attentamente rispetto alla presenza, alla produttività e all’efficienza. Questo è un discrimine rispetto al quale o ci si pone da una parte oppure ci si pone dall’altra.
Il picco di discriminazioni legate alla maternità va contestualizzato: si lega alle criticità del mondo del lavoro in generale, agli effetti dei fenomeni della globalizzazione e anche ai fenomeni della delocalizzazione del lavoro. Tutte le forme più fragili, le forme parziali, le forme atipiche, precarie e a corto respiro, e quindi per lo più le forme di occupazione femminile, sono tutte soggette ad altissimo rischio.
Rischio di licenziamento, di discriminazione, di mobbing, con l’”aggravante” delle scelte di maternità. I dati ci dicono che l’autore del mobbing, il mobber, è più spesso uomo e che la vittima, in linea di tendenza, è più facilmente donna. Ma non è solo questo il punto: quando un uomo è vittima di mobbing generalmente lo è perché non è più utile all’azienda o perché ha delle aspirazioni di carriera che vengono frustrate. Nel caso più diffuso che la mobbizzata sia la donna, le cause, i tempi e le modalità sono altre. Le rilevazioni dicono che il fenomeno colpisce la donne, per lo più, al rientro dal congedo previsto dalla legge per maternità.
E’ a partire da queste considerazioni e constatazioni che l’applicazione in ottica di genere del Testo Unico non può che essere avviata a partire dalla valutazione dei rischi psicosociali e stress lavoro correlati per la loro paradigmatica interconnessione con le problematiche e i principi sopra esposti.
L’attuazione delle norme inerenti la Salute e Sicurezza sul lavoro dunque può essere utilizzata come strumento di rimozione degli aspetti discriminatori! In conclusione, sebbene tutti i diritti cui si è fatto riferimento siano garantiti sotto l’aspetto normativo, il problema resta sempre il medesimo: quello del reale accesso ai diritti, quello che viene definito tecnicamente il rischio di dumping dei diritti. Rispetto a tutto questo credo che continui a valere una sensibilità che spinge a non dare mai per scontato ciò che è o sembra garantito.